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R Recensione

7/10

Daniele Faraotti Band

Canzoni In Salita

Qualcosa di assolutamente schizoide e recalcitrante ad essere confinato dentro strutture precostruite è emerso dalla nostra penisola: limacciosa e adulterata canzone d'autore spalmata su primigenia roccia matematica. Asperità, geometrie, pulsazioni, sobbalzi, viscosità, oblique melodie: la liberazione dalla forma-canzone avviene attraverso l’imprevedibilità di un trio difforme e unico nello strapazzare muscoli, buon senso, dinamiche, metriche e linguaggio. Un vero assedio all’ovvio e alle consolazioni a basso prezzo.

Il trio capitanato da Daniele Faraotti – vocalist, compositore e virtuoso chitarrista in grado di sovvertire le abituali logiche del virtuosismo, inaugurando ben altre, e più alterate, modalità espressive – compie un grande balzo in avanti, lasciando intatte le caratteristiche dell’esordio del 2008, "Ciò che non sei più" e dell'EP del 2009 "Ciò che non sai più”. Permane infatti lo stesso clima di divertita destrutturazione musicale, offerta sull’altare della sperimentazione math-rock (e di molto, molto altro ancora), senza sacrificare la volontà di comunicare e di tenere acceso un canale trasmissivo peer-to-peer fra pancia e capoccia.

Dopo l’intro di Speck, che già da solo prepara alla variopinta instabilità atmosferica che seguirà, allacciate ben strette le cinture del cervello: Sbottonato – Vicace 135 è il poderoso calcio d’inizio, a base di quella stessa energia psichica e fisica che fu dei Primus e della stessa estrosa iconoclastia di Mike Patton e dei suoi Tomahawk. “La messa agli irti molli / sembran tutti morti / che bella voce, dolce sale e poi gorgheggia / m’immagino già tutto come da maglietta”: nella luce distorta che il pezzo irradia, tutto si trasforma, anche la trama dei significati. Melanconia 2, che s’inerpica per un giro di chitarra quasi identico a Faust Arp dei Radiohead, è uno slancio verso un mondo apparentemente più equilibrato, una ballad stralunata che procede attraverso ascendenze acustiche e ascesi al theremin, ma che comunque termina in una stizza sonica che stende il tappeto alla propulsiva ipnosi di Tram Golem (A Dario Fo): un esaltante esercizio di funambolismo fra King Crimson era 73/74 (ma anche della fase “Discipline”), Don Caballero e Shellac che da la misura della irrequietezza di una musica che scorre vorace come lava, veloce però come un fiume in piena. Il romanticismo sfasato di Radioarmadio persegue più sospesi fili di ragnatela, facendoli appena vibrare, senza destare il famelico ragno che dorme – anzi cullandolo con gli ondeggiamenti della anomala coda sonora, indecisa fra disturbi elettronici e armonie rinascimentali – e distendendo i nervi prima delle esplosioni controllate di Carmensita in Kawasaki: indefinita e indefinibile, fra guizzi alla Area, sussulti alla Gentle Giant e sollecitazioni nel format della band di Les Claypool ed un gusto ingordo di destabilizzazione nei confronti della lingua italiana, compiuto con sprint ironico, si dipana sotto il costante attacco di nervosi riff e di irruenti stacchi di batteria. L’immaginario di ipotetici Afterhours in contesto avanguardistico trova in Da Un Ruolo All’Altro sia il brano più fruibile di tutto l’album, sia l’occasione più opportuna per essere trasferito dalla teoria alla pratica. Fra le incursioni funky de Le Cose (uno fra i vertici creativi della formazione), si mescolano istinti Zappiani e istanze jazz-hardcore. Le lucide illogicità delle visioni di Uh Mani (“teriomorfi torneremo, per restare qui in semplici teste gallo”) producono effetti dalle conseguenze sonore inconcepibili preparando il terreno per le intrecciate digressioni chitarristiche di Sakura  che suggellano, in modo degno della calcolata follia estetica che le ha dato origine, la chiusura di un album epilettico, geniale, concreto e sfuggente, visibile e inafferrabile come pochi altri in questi anni.

Hanno di che gioire Daniele Faraotti, Enrico Mazzotti (basso), Ernesto Geldes Illino (batteria) e la variegata compagnia che ha dato man forte  (theremin, flicorno, sax, tromba, violino, traversiere): la volatile materia che hanno provveduto a plasmare in studio, vive davvero di vita propria, come un essere senziente che è ignaro degli esperimenti da cui è stato generato. Tutti i gruppi citati in qualche modo contribuiscono  a dare volto e nome alle identità mutevoli di questo golem sonoro. Ma da soli non sono sufficienti a farne un ritratto definitivo.

Il trio dal vivo promette scintille: speriamo che per questo mirabolante “Canzoni In Salita” la band abbia modo di girare l’Italia in lungo e in largo, portando in scena il loro singolare “teatro dell’instabilità”, i cui personaggi non hanno bisogno di indossare maschere e non sembrano voler fare i conti con nessun altro se non con l’alieno incantesimo creativo che li ha portati in questo mondo, strappandoli dalla loro dimensione spazio-temporale d’origine.

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ciccio 7,5/10

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