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R Recensione

6,5/10

Naia Izumi

Don't Ask Me / Natural Disaster [EP]

Dolce Naia, anche tu, dunque. Tempo fa ci parlavi di realizzare un EP digitale da quattro canzoni l’uno ogni due mesi, per una proiezione di sei EP e di ventiquattro pezzi. Un progetto ambizioso, certo, una marcia inarrestabile, una dichiarazione d’intenti che non si vedeva (e sentiva) dai tempi dei famigerati cinquanta dischi di Sufjan Stevens. Ed infatti. L’orologio si è fermato a quel 17 luglio (quasi quattro mesi fa!) in cui è uscito “Natural Disaster”, quattro di quattro. Poi, nell’ordine: resoconti di live shows iniziati male e finiti peggio, una toccante open chat sul tuo essere una transessuale nera (un’aberrazione doppia, per Hillary Clinton), scatti rubati dal duro busking di ogni giorno, una passione riaccesasi per lo skate, frammenti di trasferte con le Utena e un tenero tentativo di fundraising per poterti permettere di attraversare gli States in lungo e in largo a bordo di un van, a diffondere la tua musica meravigliosa. Sono tanti piccoli passi che, sommati insieme, svelano l’immensa gravosità della quotidianità di una musicista che lotta per sopravvivere.

Fermarsi per un attimo e respirare profondamente, in ogni caso, non sempre è limitante. Aiuta a canalizzare le migliori idee, a separare biblicamente la pula dal grano, a sfrondare il ridondante. Qui, pur nell’ammirazione, bisogna essere onesti: anche se si mantiene su di un livello qualitativo generalmente buono, quando non anche molto buono, la doppietta “Don’t Ask Me / Natural Disaster” non raggiunge i picchi di “Never Let Them Tame You” né, soprattutto, quelli di “Soft Spoken Woman”, il vero asso del quartetto, un lavoro originalissimo ed incredibile che si pone, senza dubbio alcuno, tra le migliori uscite dell’anno in corso. Deboluccio suona soprattutto “Don’t Ask Me”, in cui i punti fissi dello stile personale ed elaborato di Naia (rifferama matematico, ampio uso di tapping e hammer on, armonie sofisticate, groove pronunciato) viene calato in un contesto più genuinamente rock. I risultati sono altalenanti. La chitarra della title track, quando non cita esplicitamente gli echi e i rimbombi degli Eighties, sembra la versione black di una copula digitale fra Prince e St. Vincent: ma già il passo di “Slow And Steady”, che pure si fregia di una costruzione melodica assai incisiva, è molto meno dinoccolato e più quadrato, con fantasmi AOR e new romantic che sembrano affiorare improvvisamente in lontananza. È ancora una volta il ritornello – cesellato da grappoli di note cristalline e da una voce, insolitamente tenera, già unica nel suo genere – a salvare una “Waiting” altrimenti non indispensabile: quanto a “Who Are We” (una metafora sull’identità di genere?), è un lento ovattato che, sfortunatamente, si fa dimenticare alla velocità della luce.

L’accostamento di umori e atmosfere, in “Natural Disaster”, torna a farsi più coraggioso, meno prevedibile. “No matter what we do / It’s never predictable”, canta infatti Naia nella title track, che, soprattutto nel solismo, sembra una versione frammentata, viziata da escrescenze elettroniche e vagamente downtempo (ma ascoltate cosa combinano le dita della nostra nel ritornello), della splendida “Dreamers” contenuta in “Soft Spoken Woman”. Eccettuata l’immancabile ballata di fine tracklist (una “Roses” che si trascina, intima e toccante ma sostanzialmente involuta, per oltre cinque minuti, tra arpeggi liquidi e cinguettii di uccelli), l’affare si fa decisamente più serio a cavallo tra “What The Hell” e “Instinct”. Se il primo potrebbe candidarsi a brano funk dell’anno (sornione e trascinante a un tempo), è il secondo a colpire a fondo: una dichiarazione di spiazzante sincerità autobiografica che vola sulle ali di un cangiante blues matematico, sbozzato a partire da un nucleo di scratch e beat hip hop. Un crossover “totale”, che riconferma l’assoluta bontà della proposta della giovane chitarrista.

Con sedici brani alle spalle (per un totale di più di un’ora), in attesa che Naia ricominci a produrre inediti possiamo già tirare le prime conclusioni preliminari. Dispiace constatare che la fattura delle ballate sia diminuita drasticamente di uscita in uscita: si sono fatte al contempo meno avvincenti, meno eterogenee, meno scorrevoli. Un problema su cui bisognerà lavorare, dal momento che in ogni EP ce ne sono, di media, un paio. Il linguaggio di Naia, che all’inizio puntava tutto unicamente sulla forza dell’interplay voce-chitarra (basso e drum machine sono così discreti, quando presenti, che possono essere trascurati), si è parallelamente ibridato, ampliato ad abbracciare ed includere nuove fonti: un processo che ci auguriamo possa incontrare un’ulteriore evoluzione nel prossimo futuro. Quello che più ci premerebbe sentire al momento, tuttavia, è una nuova versione dei pezzi più forti (suggeriamo: l’intero “Soft Spoken Woman”, l’intero “Never Let Them Tame You” con l’eccezione di “Run”, la title track di “Don’t Ask Me”, i due brani centrali di “Natural Disaster”) con una band completa alle spalle, in grado di restituire ogni singola sfumatura alle loro complesse textures. Naia è fin troppo brava e volonterosa, ma difficilmente potrà continuare a lungo in completa autonomia. È arrivato il momento che la fenice spicchi definitivamente il volo.

In estrema sintesi: 6 al primo EP, 7 al secondo, media risultante come voto definitivo. Ad inizio giugno, tra “Don’t Ask Me” e “Natural Disaster”, Naia ha registrato anche un’improvvisazione ambientale per sola chitarra (36:53), anch’essa disponibile sul suo spazio Bandcamp: rilassante quanto volete ma, in definitiva, nulla di che.

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