V Video

R Recensione

6,5/10

Owls

Two

Rimanere saldamente appesi alle partiture strumentali di “Two”, come gufi predatori che zufolano per i cazzi loro su di un ramo, è impresa non facile. Uno a zero. L’albero cresce, a fatica, un po’ storto, e deve lottare contro repentine raffiche di vento che ne minano la struttura e la stabilità: alla stessa maniera, quando Tim Kinsella smozzica, declama, trasuda – da bravo (ex) emo-kid – i propri testi criptici e giocattolosi, quasi sembra voglia abbattere a cannonate la dura madre ritmica del fratello Mike e di Sam Zurick, un affronto di pieno petto contrappuntato dalla lunaticità chitarristica di Victor Villarreal. Due a zero. Lo stesso fluire musicale di “Two”, peraltro, s’inceppa, s’interrompe, sobbalza, un filo rotto e riannodato più e più volte senza che si possa tracciare una reale continuità. Tre a zero.

Il perfetto sophomore degli Owls è un disco invero imperfetto, complicato, tormentato. Un opus pop per chi non vorrebbe mai ascoltare pop. Un contentino emo per chi è rimasto folgorato dalle recentissime epopee di The World Is A Beautiful Place And I’m No Longer Afraid To Die, This Town Needs Guns e Crash Of Rhinos (pace all’anima loro, ma già American Football e Minerals hanno fiutato la buona parata e si stanno rifacendo prepotentemente sotto). Un crocicchio di direttrici math per chi non si è scordato di com’è bella la strada che porta alla disarmonia. La gestazione di tredici anni a partire dall’esordio, assolutamente comprensibile se si tengono in considerazione tutti i progetti in cui si sono impegnati i membri del gruppo, pesa grandemente su “Two”, il cui spiccato anacronismo si pone da subito come proprio tratto distintivo. Non fossimo nel 2014 parrebbe davvero di rivivere gli stinti Noughties: persino i titoli di ogni pezzo, sospesi a metà, accartocciati su loro stessi, spezzati dall’incertezza, sono a tal proposito eloquenti.

La scuola indolente di “Four Works Of Art…” – schitarrate slacker à la Pavement, avanzare a gattoni e tentoni verso un finale-non finale –, che nel singolo “I’m Surprised…” si trasforma per un attimo in afflato patetico del viandante chicagoano su un mare di scorie, e nella terza “The Lion…” in un raccontino allucinato gentilmente patrocinato dagli Shellac (quelli più circolari, of course), raggiunge i suoi risultati più alti nel cervellotico e cristallino arpeggiorama su signatures dispari-ma-non-troppo di “This Must Be How…”, lo squillante break centrale a suon di jangle che apre in due “Ancient Stars Seed…”, i riff disarticolati ed umorali inanellati in sequenza su “I’ll Never Be…” (scazzatissimo e sublime il Kinsella dietro al microfono) e le sordide tossine noise che mandano a fondo le squisite primizie geometriche – se ci risentite i Blind Idiot God non soffrite di acufeni – di “Oh No, Don’t…”.

Se amate il genere, farete quello che avete sempre fatto: passare il vostro tempo a decifrare l’ennesimo difficile enigma, sino alla liberazione di “A Drop Of Blood…”, la resurrezione lineare dei guitar hero da cantina. Se il cervello non ha ricevuto invito ufficiale per la festa, invece, fategli pure compagnia a casa…

V Voti

Nessuno ha ancora votato questo disco. Fallo tu per primo!

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.