Owls
Two
Rimanere saldamente appesi alle partiture strumentali di Two, come gufi predatori che zufolano per i cazzi loro su di un ramo, è impresa non facile. Uno a zero. Lalbero cresce, a fatica, un po storto, e deve lottare contro repentine raffiche di vento che ne minano la struttura e la stabilità: alla stessa maniera, quando Tim Kinsella smozzica, declama, trasuda da bravo (ex) emo-kid i propri testi criptici e giocattolosi, quasi sembra voglia abbattere a cannonate la dura madre ritmica del fratello Mike e di Sam Zurick, un affronto di pieno petto contrappuntato dalla lunaticità chitarristica di Victor Villarreal. Due a zero. Lo stesso fluire musicale di Two, peraltro, sinceppa, sinterrompe, sobbalza, un filo rotto e riannodato più e più volte senza che si possa tracciare una reale continuità. Tre a zero.
Il perfetto sophomore degli Owls è un disco invero imperfetto, complicato, tormentato. Un opus pop per chi non vorrebbe mai ascoltare pop. Un contentino emo per chi è rimasto folgorato dalle recentissime epopee di The World Is A Beautiful Place And Im No Longer Afraid To Die, This Town Needs Guns e Crash Of Rhinos (pace allanima loro, ma già American Football e Minerals hanno fiutato la buona parata e si stanno rifacendo prepotentemente sotto). Un crocicchio di direttrici math per chi non si è scordato di comè bella la strada che porta alla disarmonia. La gestazione di tredici anni a partire dallesordio, assolutamente comprensibile se si tengono in considerazione tutti i progetti in cui si sono impegnati i membri del gruppo, pesa grandemente su Two, il cui spiccato anacronismo si pone da subito come proprio tratto distintivo. Non fossimo nel 2014 parrebbe davvero di rivivere gli stinti Noughties: persino i titoli di ogni pezzo, sospesi a metà, accartocciati su loro stessi, spezzati dallincertezza, sono a tal proposito eloquenti.
La scuola indolente di Four Works Of Art schitarrate slacker à la Pavement, avanzare a gattoni e tentoni verso un finale-non finale , che nel singolo Im Surprised si trasforma per un attimo in afflato patetico del viandante chicagoano su un mare di scorie, e nella terza The Lion in un raccontino allucinato gentilmente patrocinato dagli Shellac (quelli più circolari, of course), raggiunge i suoi risultati più alti nel cervellotico e cristallino arpeggiorama su signatures dispari-ma-non-troppo di This Must Be How , lo squillante break centrale a suon di jangle che apre in due Ancient Stars Seed , i riff disarticolati ed umorali inanellati in sequenza su Ill Never Be (scazzatissimo e sublime il Kinsella dietro al microfono) e le sordide tossine noise che mandano a fondo le squisite primizie geometriche se ci risentite i Blind Idiot God non soffrite di acufeni di Oh No, Dont .
Se amate il genere, farete quello che avete sempre fatto: passare il vostro tempo a decifrare lennesimo difficile enigma, sino alla liberazione di A Drop Of Blood , la resurrezione lineare dei guitar hero da cantina. Se il cervello non ha ricevuto invito ufficiale per la festa, invece, fategli pure compagnia a casa
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