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R Recensione

6/10

Rolo Tomassi

Cosmology

L’esperienza insegna che con un inglese puoi parlare di tutto: del fish & chips, della rete ladrata a Lampard contro la Germania negli ultimi, sciagurati mondiali sudafricani, di Carlo e Camilla, della grande truffa del rock’n’roll. Ecco: a meno di non essere sfegatati tifosi dei pianoforti brit, dei Queen o dei Muse (ah, questi stereotipi), i discorsi musicali che vadano troppo a ritroso rischiano di essere monocordi e puntualmente imperniati sulla lotta farlocca tra scarafaggi e pietre rotolanti, da cinquant’anni inseriti in dispute che non hanno alcuna consistenza. Intendo dire: come un italiano si troverebbe in enorme difficoltà nel discutere proficuamente di psichedelia indigena, similmente vi sono territori impervi per gli amici anglosassoni. Il post-core, per esempio. Basterebbe, forse, una mano per elencare gli episodi di spessore che riguardino direttamente il Regno Unito (i più malevoli suggerirebbero un pollice). Roba che gli Stati Uniti, all’idea di un confronto diretto, si sbellicherebbero dal ridere.

Epperò. L’apparizione in lontananza di un quintetto come i Rolo Tomassi, aldilà di disquisizioni varie ed eventuali da tenersi in terra d’Albione, è un evento da far incuriosire un minimo anche astanti a migliaia di chilometri di distanza. Perché se è vero che la validità di un gruppo, mutatis mutandis, si misura anche sulle frequenze d’onda su cui si sintonizza, mandando in tilt la stampa specializzata che si profonde in paragoni l’uno più incerto dell’altro, allora sarebbe il caso di perdere l’aria di sufficienza materializzatasi sulla faccia degli astanti e prestare attenzione. Arrivati alla seconda prova sulla lunga distanza, dopo “Hysterics” del 2008, i ragazzi capitanati dal caschetto belligerante di Eva Spence, con “Cosmology”, la mettono giù davvero pesante, senza compromessi e senza valutare i rischi di determinate scelte stilistiche, orientati verso un math-core futuribile agganciato al grind tecnologico degli ultimi Locust (quelli di “New Erections”, per i meno avvezzi).

Fatalità vuole che la brevissima tripletta d’apertura (“Katzenklavier”, “Agamennon” e “House House Casanova”, nemmeno quattro minuti in totale) sia tra i peggiori biglietti da visita che mi sia capitato di ricevere. Altrove si sono disseppelliti addirittura i mai troppo obliati Enter Shikari per definire questo particolare impasto di forme sintetiche, assalti gutturali e spericolate traiettorie chitarristiche, figlie degli incroci –core di fine anni ’90, appannaggio di nuclei come Botch e Dillinger Escape Plan. In verità, tra divertissement elettronici, slalom a zig zag e sorda sporcizia metalcore che tracima, furente e ridondante, da ogni poro, vicino è il nume tutelare (qual gaudio!) dei Tony Danza Tapdance Extravaganza, anch’esso misconosciuto ed accessorio complesso americano prospiciente il proto-revival del neo hardcore. Piccoli scampoli di idee involuti, embrionali e privi, per conformazione, di ogni sbocco, nei quali si può leggere davvero poco altro che coercitiva forza bruta.

Decisamente meglio va, nel seguito, a piccole perle sbozzate nel metallo e forgiate dal fango crust che, con il giusto seguito (ma ne dubitiamo), potrebbero attirare molti discepoli. Stupefacenti, soprattutto, i giochi vocali di cui si rende protagonista la Spence, imprimendo un’incredibile forza motrice ai brani prima, colorandoli di sfumature infinitamente divisibili poi. “Sakia” ha la possenza degli Zao dispersi, in un mirabile continuum, tra briglie wave sottilmente dreamy. “Unromance” è un grind acido, pirotecnico, come i Cattle Decapitation comanderebbero, che si concede alle atmosfere del lounge cinematico prima di addomesticare una malinconica, memorabile melodia pianistica. Meno bene per il nervoso singolo, “Party Wounds”, ancora troppo legato ad un gioco di aggressione e rilascio math senza le giuste profondità. Ingenuità riscattate alla grande, in ogni caso, con la title-track conclusiva, uno schizofrenico, compiuto delirio sinfonico che, evitando di affilare ancora una volta le chitarre folleggianti di “French Motel”, si presenta come il colpo più consapevolmente doloroso di tutti.

Mai come questa volta servirebbero i mezzi voti, per indicare che lo studente è decisamente in gamba, ma ha tutto il tempo necessario per migliorarsi. Nella momentanea loro assenza, per il momento, prendiamo e diffondiamo.

 

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