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R Recensione

6,5/10

Self-Evident

The Traveler

Non so voi, ma – per quanto mi riguarda – da un gruppo che si autodefinisce un curioso incrocio genetico tra le atmosfere dei Karate, le odd signatures dei Don Caballero, le melodie dei Mogwai e le dissonanze degli Shellac ci si dovrebbe aspettare non meno che un capolavoro da tramandare ad imperitura memoria. Potere degli annunci sponsorizzati, il nuovo Eldorado low budget offerto dai social network… I Self-Evident, tre ragazzotti barbuti di Minneapolis, Minnesota, sparano certo molto in alto quando si tratta di mappare il loro genoma artistico. La logica dell’ormai logora formula tutto-purché-porti-un-click? Probabile. Deprecabile eticamente? Senz’altro. Funzionale pragmaticamente? Altrettanto. In nessun altra maniera, se non lavorando di lena su percorsi da tempo già semi-professionalmente avviati, saremmo venuti a conoscenza di “The Traveler”: avremmo perso così una ghiotta occasione per fare la conoscenza di un gruppo non più esordiente, ma assai valido.

Le dita del chitarrista Conrad Mach sono pennelli che dipingono un colorato, nostalgico patchwork dell’America perduta: quella delle camicie di flanella, degli scantinati prospicienti prati e villette bianche uguali l’una all’altra, dell’introversione intellettuale, della sensibilità da cameretta. In questo, la pittoresca descrizione fornita dai membri stessi è calzante: nella brevità d’espressione, nell’eterogeneità del materiale con cui viene infusa vita ai brani, nelle improvvise sovrapposizioni e sfumature di generi, “The Traveler” è realmente un disco degli anni ’90, al crocevia tra il post grunge, il math rock, l’emo storico, alcune asperità del post rock chicagoano rimesse a nudo. Più che i Mogwai, tuttavia, pensiamo di individuare nei Pinback un riferimento maggiormente puntuale: e per il tono dimesso e naturalmente fragile delle voci, e per l’abilità strumentale, e per certi sfoghi elettrici volutamente non addomesticati. Aldilà dei Karate, poi, Faraquet e Cap’n’Jazz (per non parlare di altri gruppi di casa Kinsella, Owls in testa) sembrano intonarsi alla stramba vena melodica della sezione corde: ogni passaggio rimane sempre ben decodificabile ma, in qualche misura, non immediato, non facilmente prevedibile, lunatico, riottoso.

Si spiega così lo straordinario dinamismo della breve “Salvaged”: romance à la The World Is A Beautiful Place & I Am No Longer Afraid To Die per la prima metà, spigliata epica matematica (quasi dei Meat Puppets con squadra e righello) nella seconda. Tentazioni atonali spuntano qui e lì, come funghi, come nella splendida “Swell” (i Minerals sezionati da un anatomista jazz di prima categoria), nella conclusiva “Time Capsule” (le rapprese frustrazioni cerebrali dei For Carnation invischiate in un complesso e plastico gioco chiaroscurale: voto massimo), nell’iniziale inno in 11/8 “A New Way” (una liberazione per gli amanti di Fugazi e American Football). I Self-Evident, per quanto sempre ammirevoli, si fanno meno interessanti nei lenti d’atmosfera che richiedono strutture convenzionali: “House” fa intravedere inquietudine solo a sprazzi, “Drowned In Flames” – per come viene suonata e sillabata – sembra provenire dalle session di “Summer In Abaddon”, sebbene sia una cover dei Traindodge di “The Truth” (doppio datato 2004). L’espiazione è prossima: basta regalarsi un fuzz supplementare, alzare il volume degli amplificatori e sfoderare “Loaded Down With Static”, un brano che ha tutta l’apparenza di uno slacker-math cantato dai Sunny Day Real Estate (ma è, a sua volta, una rilettura: la fonte è “Refuse This Gift”, terza opera dei chicagoani Bear Claw, 2010).

Non vi sono dubbi che “The Traveler” (un antipasto, a quanto apprendiamo, per la prossima prova sulla lunga distanza) sia un disco profondamente di genere, ma le intenzioni sono permeate di tale passione e sincerità da non poter essere non premiate. Avvertenza: quando dicevamo che i Self-Evident non erano di primo pelo non scherzavamo. Il power trio americano ha all’attivo sei full length, spalmati su quasi vent’anni di attività: “What We Sound Like” (2000), “Angular” (2003), “Epistemology” (2005), “Self-Evident” (2007), “Endings” (2009), “We Built A Fortress On Short Notice” (2012). Un invito, dichiarato, all’approfondimento.

V Voti

Voto degli utenti: 5,5/10 in media su 1 voto.
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motek 5,5/10

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