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R Recensione

8/10

The Union Of A Man And A Woman

The Sound Of

The Union Of A Man And A Woman è il bislacco nome di una purtroppo misconosciuta band originaria di Staunton (Virginia), attiva per un breve periodo sul finire degli anni ’90. The Sound Of… è il titolo, irriverente e perfettamente esemplificativo del carattere della proposta, di un esordio fulminante che si ricorda oggi come uno dei più bei colpi di coda (e, nel genere, forse il più bello di tutti) di una decade ormai prossima alla fine.

Non si sa molto di questi tre (allora) giovanissimi ragazzi. Pochissime le informazioni reperibili in rete: qualche nota sul sito dell’etichetta, qualche altra su blog di ammiratori, una foto, nessun video neppure su youtube (almeno fino a qualche giorno fa). Compagni di college, in gruppo assieme fin da ragazzini, Neil Campbell (batteria), John Harouff (chitarra, percussioni, violino, radio a onde corte - ? - ) e Kurt Beals (voce, basso, violino, sassofono, nastri magnetici) mettono insieme, in questo che resterà il loro unico lascito, un autentico gioiello di scultura sonora e geometrie schizoidi, nella triplice scia di un post hardcore sempre più secco e spigoloso, di un noise rinvigorito dai ripescaggi (altrui) nelle avanguardie passate e di un math rock votatosi ora più che mai alla destrutturazione e allo scherzo.

Immaginate la sezione ritmica dei Don Caballero ridotta all’osso, scheletrica ed affilata come quella degli Shellac, messa in mano a due isterici molto lucidi e molto intelligenti, ma iperattivi al punto da non poter stare sul tema per più di qualche istante. Metteteci un chitarrista come, chessò, Dylan Posa o Drew St. Ivany (Flying Luttenbachers, Laddio Bolocko) che però, al jazz, preferisca il noise dei Dead C. Fate conto che il tutto risponda piuttosto bene all’estetica Dischord e, forse, se ci avrete messo dentro anche l’autenticità di chi non si imbriglia in concetti e credo, vi uscirà qualcosa di simile a quel che c’è in questo disco. O che non c’è. Perché, a ben vedere, qui non si tratta di canzoni, brani o quant’altro. Tant’è che neppure corrisponde il numero delle tracce (12) con quello dei titoli (9). Questo, dall’inizio alla fine, è un disco di fratture più che di parti intere, di vuoti più che di pieni, di fendenti tirati di sbieco, di centri mancati di molto.

Quattro secondi, il tempo che una voce femminile scandisca il nome del gruppo, e siamo già alla traccia due, primo titolo in scaletta. Battered Children Twirling Battered Batons si aggrappa ad un brevissimo riff angolare di tre note tre, alternato ad una ritmica in cinque quarti su cui Beals inizia a declamare, leggero, il suo testo assurdo pieno di “Hip Hip Hooray”. Stop & go a ripetizione, sovrapposizioni metriche, il rullante che ruba la scena ad un tappeto noise: più che destrutturare la forma canzone, gli Union la deridono, la torturano, l’ammazzano proprio. Sono beffardi, ma molto seriamente. Nulla a che vedere con la  cialtroneria esibizionista dei Butthole Surfers, o con la demenza intellettuale dei Devo. Questi tre sono puliti come la Glasgow epoca Postcard, neppure una parolaccia per farsi notare: pantaloni e camicia, facce normali con capelli normali, un rigore assoluto tanto nella materia musicale quanto nella grafica del prodotto (così minimale che, al confronto, Mondrian sembrerebbe un buzzurro barocco). Non mancano riferimenti ai modelli più significativi del movimento math. I quaranta secondi di Sixteen Cars Collide, così come il finale di One Red Light, One Green Light, Two Cars Drive, Cars Collide (l’incidente automobilistico è il suono di questo disco) e la ritmica dispari e muta di Are Your New Shoes Fit For The New Dance? ricordano caratteri dei Laddio Bolocko (la grande importanza riservata agli armonici naturali - preferibilmente pestati a sangue - e le rivisitazioni compattate di avanguardie à la This Heat). Distant, addirittura, fra un’idea vocale quasi melodica ed un basso rubato a Joe Lally o Martyn LeNoble, cita apertamente una parte della loro Goat Lips.

C’è molto di Ian Williams, invece, nell’anticipazione dei Battles che segue l’incipit di batteria e voce di An Oscar De La Renta. Il breve testo si esaurisce nel giro di pochi secondi (…that gives you status and style, doll, and that’s what you need, right, status and style?), poi il brano esplode in termini matematici prima di precipitare dentro un om da didgeridoo di cemento, in cui la voce di Gretchen Schwemer, la stessa che ha aperto il disco, si prende il tempo di contare, numero dopo numero, da uno a cento (…). Mancano gli Shellac? Eccoli lì, evocati dal basso martellante e dagli armonici di Grand Design. Che poi si innesti nella sezione rumorista centrale il sibilare di una difficoltosa sintonizzazione radio (eccola), o che il finale richiami la vivacità dei primi Q And Not U, altro non è che un segno del grandangolo in dotazione ai nostri. Meno facile trovare riferimenti per il bordello free-cazz in sette ottavi di Cut To Fit The Mouth, o per la spericolata ordinarietà di Sing Along Your Heart Out, unico brano a concedersi, almeno nella seconda parte, una certa continuità strutturale espressa semplicemente nella lunga ripetizione di due accordi.

Disco impegnativo, che premia esclusivamente la perseveranza di chi insiste oltre i tre/quattro ascolti, The Sound Of… è un’imperdibile gemma di math/noise cubista che qualsiasi amante del genere dovrebbe mettere in catalogo. Non andrebbe considerato il suono che arriva dai video, ché su disco è assolutamente perfetto. E se si pensa che l’album è stato interamente registrato in presa diretta (da Geoff Turner presso i WGNS Studios), con la sola voce incisa in un secondo momento, allora sì, non resta altro da fare che inchinarsi fronte a terra. Peccato solo si sia trattato di un singolo exploit. Ma mica volevano illudere nessuno: il nome del gruppo, loro, lo avevano già cancellato su quest'unica, prima copertina.

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C Commenti

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bargeld alle 10:11 del 15 giugno 2012 ha scritto:

Mi ricordano per alcuni tratti certe b-sides della Jon Spencer Blues Explosion... quei pezzi però si esaurivano in un minuto o poco più, qui la destrutturazione pare completa e anzi esasperata. Mi piace, grazie per la perla!

Marco_Biasio alle 22:41 del 17 luglio 2012 ha scritto:

Gaz, mi stai facendo scoprire un disco più bello dell'altro. Come ti potrò mai ringraziare? Questi sono fenomenali, impegnativi ma dalla cifra stilistica e "matematica" formidabile. Pura libertà espressiva. An Oscar De La Renta mi fa morire ogni volta!!

paolo gazzola, autore, alle 12:39 del 18 luglio 2012 ha scritto:

Ah, ma figurati, i vostri commenti sono il ringraziamento migliore. Considera poi che il rapporto tra quello che io posso averti fatto scoprire e quello che tu hai fatto scoprire a me sarà di circa 1 a 10, quindi il grazie va a te! E anche a Bargeld, che ha le orecchie rotte pure lui e apprezza (interessante l'accostamento a Jon Spencer, non ci avrei mai pensato...). Questo è un disco eccezionale: ce l'ho da quasi 15 anni e regolarmente capita che mi ci perdo per giorni. Mi raccomando di dirmi, nel 2027, se sarà stato così anche per te.