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R Recensione

7/10

Fluxus

Non Si Sa Dove Mettersi

A Maldoror ciò che è di Maldoror. Ironia della sorte, il quinto disco dei Fluxus non è quello di cui state leggendo la recensione. È stato scritto e registrato in assoluta autonomia tredici anni fa, e si doveva chiamare “Satelliti E Marziani”. Se non ne avete mai sentito parlare, siete in buona compagnia: quel disco, per scelta dei suoi factotum, non è mai stato distribuito. Fu l’ultimo, anticonvenzionale, suicida atto di ribellione di una band giunta – per contingenze esterne e tensioni interne – ai prematuri titoli di coda, sopravvissuti del loro tempo ma non al loro tempo. Ognuno dei membri, giunti a questo punto, prese la propria strada: Franz Goria formò i Petrol, luminosissime meteore wave dei tardi Duemila italiani (si stenta a credere che “Dal Fondo” abbia già undici anni…), mentre Luca Pastore, oltre ad aggregarsi al progetto Maciunas con il compagno Roberto Rabellino e l’ex Afterhours Giorgio Ciccarelli, si dedicò perlopiù all’attività documentaristica.

Il resto si scrive da sé. Il fiume carsico che scorre e scava nella memoria di chi c’era, ricorda e pertanto rimpiange – nel novero sono inclusi coloro che, pur non essendoci stati, compartecipano della nostalgia affidandosi ai cervelli digitali – prorompe virulentemente in superficie dal 2013 in avanti: una compilation tributo in free download (“Tutto Da Rifare”, come l’anthem di “Pura Lana Vergine”), i due concerti-evento del 2014 e poi, l’estate scorsa, dal nulla o quasi, l’annuncio di una campagna di crowdfunding (azzardo stravinto) per finanziare le stampe e la distribuzione di un nuovo disco. Il quinto, per l’appunto, o forse sesto: o forse non importa, perché, comunque stiano le cose, oggi come ieri non si sa dove mettersi. Lo cantavano gli Stormy Six nel 1982 in un claustrofobico e stralunato vagolare fusion, quasi captando il rombo del rovinoso crollo delle ideologie post-belliche: lo cantano, oggi, i Fluxus, probabilmente avvertendo sulle proprie spalle tutto il peso della propria inattualità – un’inattualità che si fa oggi triplice: come gruppo politico, gruppo rock, gruppo italiano.

Serviva come l’aria, il ritorno dei Fluxus. Serviva a ricordarci chi siamo, da dove veniamo, dove possiamo andare. Serviva come bussola identitaria, come lume che fende la notte delle contraddizioni post moderne: serviva a metterci davanti ad uno specchio per tentare, faticosamente, di riconoscere nuovamente il nostro volto. E serviva, ça va sans dire, in sé e di per sé: come rinnovata testimonianza di uno dei nostri migliori gruppi di sempre. A questo proposito, la questione formale è, tra tutte, quella che più salta all’occhio: il linguaggio allusivo, criptico e metaforico con cui la creatura di Franz Goria si era congedata dagli ascoltatori (con il “maiale” del 2002) torna a farsi scalpello, martello pneumatico, serpentina metallica. La lingua, più che significare, descrive: e anche gli slogan poetici e le frasi ad effetto, in questo contesto, assumono un’altra connotazione, meno eterea e più affilata. La musica, per diretta conseguenza, viene catturata in una posa nuovamente caustica e corrusca. Non si tratta di un ritorno alle frustate di “Non Esistere” o alle tempeste di “Pura Lana Vergine” (non fosse altro perché Franz, più che urlare, qui si limita a cantare a volume sostenuto, e perché la line up è “solo” a quattro elementi, con la new entry Fabio Lombardo ad aggiungersi al nucleo storico Goria-Pastore-Rabellino), ma fumi e colori, densi e massicci, sono quelli del noise anni ’90. A deviare dal percorso, la sinuosa visione psichedelica de “La Decima Vittima”, una lounge narcolettica il cui immaginario cavalca le distopie pop art di Petri e certo Burroughs anfetaminico (la “scolopendra gialla che sibila e balla”, nei live, si sposerebbe alla perfezione con la vecchia “Una Splendida Giornata Di Luna”), e l’ostile elettricità dello strepitoso affresco catacombale di “Alieni Per La Strada” (“Riaprite le porte / Lasciateci andare / Dateci tutto indietro / Che indietro non vogliamo tornare / Non abbiamo risposte / Non cerchiamo ragioni / Noi non vogliamo più bisogni, certezze e soluzioni”).

Ben connotato è dunque “Non Si Sa Dove Mettersi”, a partire dal costante lumeggiare della contrapposizione fra servi-cani e padroni, già presente nella strascicata cantilena doom di “Nei Secoli Fedeli”, riaffermata nella fucilata di “Mi Sveglio E Sono Stanco” (con inatteso secondo ritornello corale in coda: “Governaci, governami, che non so cosa fare / Governaci, governami, che non so dove andare / Proteggici, proteggimi, ho paura del buio / Bastonaci e difendimi”) e marchiata a fuoco nella devastante colata di cemento de “Gli Schiavi Felici”, un eburneo post-core con rientro “zoppo” in 11/8, la cui seconda metà è un ciclone noise a volumi crescenti, l’incontrollabile urlo di rabbia dello schizoid man disatomizzato e annichilito dagli ingranaggi della realtà contemporanea. Una caratterizzazione pregnante, a tutto tondo, che omaggia le litanie orientaleggianti del Ferretti altezza “Tabula Rasa Elettrificata” in una “Bianca Materia” risolta in un ritornello di alienante melodismo: allo stesso modo, la metafisica sferzata punk di “Ma Ero Già Indietro” (il testo, per chi ama la poetica dei Fluxus, è un colpo al cuore) si destreggia tra salti di tonalità e fiammeggianti distorsioni bossa e “Licenziami” annacqua scorticanti scansioni thrash in 7/8 in un generale, possente umore grungey. A dispetto dei toni grigiastri e della concisione del minutaggio, insomma, si continua a percepire una certa varietà stilistica, anche se alcune soluzioni, abbondantemente superate dal tempo, suonano oggi sostanzialmente innocue (si veda il tambureggiante crossover di guerra di “Prescrivimi Qualcosa”) e non meglio definita è l’identità di alcuni brani (ottima, ma indecifrabile nell’economia complessiva, è “Datemi Il Nulla”).

Disco di spessore e livello, dunque, al cui termine l’unica domanda rimane: quanto il recupero di stilemi e tematiche oggi ritenute minoritarie (di cosa parla e come suona il rock italiano contemporaneo?) riuscirà a garantire alla band l’accesso a nuove generazioni di ascoltatori, i più ignari di questo tipo di immaginari? Oggi come ieri, i Fluxus non sanno dove mettersi: e noi, ne voglia il cielo, nemmeno.

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