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R Recensione

6/10

Lightning Bolt

Fantasy Empire

I Lightning Bolt non si sono mai sciolti, ma ogni loro nuovo disco, chissà perché, sembra essere in qualche modo l’ultimo, il postremo, le colonne d’Ercole di un entusiasmante ed anticonvenzionale percorso artistico. Sarà che certa musica la si suona con lo spasmo belluino di chi si sente braccato da mille diversi nemici, o non la si suona affatto: sarà che sei anni separano “Fantasy Empire” dall’ultimo, fiacco full length, “Earthly Delights” (non si contino, ovviamente, gli scarni recuperi archeologici di “20” e “Oblivion Hunter” e nemmeno l’inconcludente jam di “I Found A Ring In My Ear”, tutto materiale del 2012); sarà che la rottura con Load, prima dell’approdo – insospettabile sino ad un certo punto: si ricordino gli White Hills – su Thrill Jockey, sembrava possedere tutti i crismi del punto a capo. Fatto sta che la sorpresa di parlare, oggi, dei due Brian, Gibson al basso e Chippendale alla batteria, è paradossalmente paragonabile al disagio storico nel maneggiare le ultime falcate in studio di Refused e Faith No More: si ha sempre la sensazione di essere fuori tempo, di riferirsi ad un oggetto senza più connessioni con la realtà circostante. La differenza, in buona misura, è data dalla qualità di ciò che viene preso in esame: e qui, non ce ne vogliano Lyxzén e Patton, la bilancia pende interamente dalla parte del duo di Providence, Rhode Island.

Fantasy Empire”, mettiamo le mani avanti, non è una grande prova: è affetta, sui generis, da una logorrea compulsiva, un’incapacità generalizzata di sintesi (tutta la seconda metà di “Snow White (& The 7 Dwarves Fans)”, una sorta di dub supersonico jammato tra pentolacce e cantilene, è ampiamente prescindibile), un’attrazione compulsiva e magnetica verso i soliti barocchismi del metal neoclassico che, di tanto in tanto, riemergono dal cumulo di macerie e lamiere contorte (lo stacco a 1:57 di “Dream Genie”, ripetuto anche più in là, ricalca le calligrafie di un’intera generazione di chitarristi, stretta fra Megadeth e Dying Fetus). Sono, a ben vedere, gli effetti collaterali di germi da sempre incubati e tenuti sotto controllo, ora graziati di una maggiore autonomia. L’autoreferenzialità cronica di “Earthly Delights”, il naufragio di un suono disperatamente avvolto su sé stesso, è scampata: basterebbe questo per tirare un sospiro di sollievo e concedere piena fiducia a Gibson e Chippendale. Da parte loro, i due prezzemolini calano un paio d’assi davvero notevoli: “King Of My World” è una drum’n’bass lo-fi (la versione da cantina degli Oneida del primo capitolo di “Rated O”) che, in un florilegio di effetti psichedelici, si tramuta nel math più danzereccio delle ultime decadi; “The Metal East” aumenta il groove, inscenando un massiccio paso doble metallico; “Mythmaster” l’abbruttimento noise che cala come una mannaia (potrebbe passare come reggaeton, se non fosse suonato al triplo della velocità consentita).

Con questi Lightning Bolt, insomma, ci si può divertire ancora un sacco: basta prenderli per il verso giusto, provare a rileggerne le trame da diverse prospettive. Quella che parte a 3:11 dell’irresistibile “Runaway Train”, ad esempio, potrebbe passare come sottile parodia dei Battles di “Atlas”? Chissà. E “Horsepower”, che mostra ironicamente i muscoli come una qualsiasi band metalcore alle prime armi? Gli spunti non mancano. Si riparta da qui, allora, verso nuovi lidi. Bentornati, ragazzi!

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