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R Recensione

6,5/10

Lorø

Lorø

Stupisce leggere, saltabeccando per varie pagine, fior fiore di critiche e recensioni negative, ma non si può vivere di soli colpi sotto la cintola e in questo, effettivamente, i Lorø tendono a peccare di iperprestanza fisica (si può davvero peccare di iperprestanza fisica?). Che sia consapevole direzione stilistica e non scelta obbligata da limiti tecnici lo dimostrano, luminosamente, due brani come “High Five” e “Ø”. Nel primo, un autentico gioiello, chiazze lunari di piano elettrico si incuneano, oniriche e spettrali, tra le fessure di un’imponente sezione ritmica post-core, tant’è che viene spontaneo accostare agli Unsane i Julie’s Haircut di “Ashram Equinox” (disco tanto importante quanto, de facto, sottovalutato). Il secondo, sulla scia delle perturbazioni ambiental-noise dei primi Dead Elephant, mette – coraggiosamente – in scena una pièce industriale tutta fruscii, schianti e sferragliamenti: una galleria degli orrori che, a dispetto delle previsioni, non rinuncia ad una propria consequenzialità.

Giunti a nemmeno un quarto della scaletta, la platea di potenziali ascoltatori deve già scegliere da che parte stare. Eterogeneità e raffinatezza saranno costantemente sacrificate allo spasmo e al muscolo, anche quando – come in “At Mortem” – il sovrapporsi di synth futuristici e arcigni arpeggiati post rock sembra fornire valido contrafforte a intelaiature rifratte e bassi distorti quasi à la MoRkObOt. È un placebo momentaneo: che infuri la babele su una irremovibile cassa dritta (“Clown’s Love Ritual” ricorda tutto e niente) o che al caos si pervenga via matematica (perfetti, dal respiro sottilmente epico gli incastri strumentali di “Thaila”, con due sezioni in 3/4 alternate ad una in 7/4: come immaginare gli Io Monade Stanca investiti di emozionalità post metal), ciò che rimane, al passaggio dei Lorø, è un paesaggio disseminato di rovine fumanti. A tratti il meccanismo, nell’ansiolitica ambizione di spostare sempre più in alto l’assicella del coefficiente tecnico, s’inceppa (ed infatti “A Trick Named God” necessita di raffreddare le proprie rasoiate in un acquitrino dark ambient tutto sommato prescindibile): altrove, come in “Faster, Louder & Better” (Serpe In Seno corretti Motörhead, con qualche accenno ad una geometria superiore), il rischio concreto – anche per durate spesso eccessive e non gestite sempre come sarebbe più opportuno: tant’è che l’iniziale panzer electro-core di “Pollock” è anche uno dei migliori – è di far prevalere la noia.

Lo dico, senza troppo campanilismo, ché chi suona occupa gli stessi chilometri quadrati di chi scrive: la curiosità di risentire, a breve, una versione appena più snella e variegata della band in azione lungo questi nove pezzi (l’ultimo, “To Whom It May Concern”, è una riedizione doom delle fissazioni dell’intero platter: andamento sbilenco, distorsioni riarse, atmosfere cupe), è moltissima. L’attesa è che ci si comporti di conseguenza.

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