Lorø
Lorø
Stupisce leggere, saltabeccando per varie pagine, fior fiore di critiche e recensioni negative, ma non si può vivere di soli colpi sotto la cintola e in questo, effettivamente, i Lorø tendono a peccare di iperprestanza fisica (si può davvero peccare di iperprestanza fisica?). Che sia consapevole direzione stilistica e non scelta obbligata da limiti tecnici lo dimostrano, luminosamente, due brani come High Five e Ø. Nel primo, un autentico gioiello, chiazze lunari di piano elettrico si incuneano, oniriche e spettrali, tra le fessure di unimponente sezione ritmica post-core, tantè che viene spontaneo accostare agli Unsane i Julies Haircut di Ashram Equinox (disco tanto importante quanto, de facto, sottovalutato). Il secondo, sulla scia delle perturbazioni ambiental-noise dei primi Dead Elephant, mette coraggiosamente in scena una pièce industriale tutta fruscii, schianti e sferragliamenti: una galleria degli orrori che, a dispetto delle previsioni, non rinuncia ad una propria consequenzialità.
Giunti a nemmeno un quarto della scaletta, la platea di potenziali ascoltatori deve già scegliere da che parte stare. Eterogeneità e raffinatezza saranno costantemente sacrificate allo spasmo e al muscolo, anche quando come in At Mortem il sovrapporsi di synth futuristici e arcigni arpeggiati post rock sembra fornire valido contrafforte a intelaiature rifratte e bassi distorti quasi à la MoRkObOt. È un placebo momentaneo: che infuri la babele su una irremovibile cassa dritta (Clowns Love Ritual ricorda tutto e niente) o che al caos si pervenga via matematica (perfetti, dal respiro sottilmente epico gli incastri strumentali di Thaila, con due sezioni in 3/4 alternate ad una in 7/4: come immaginare gli Io Monade Stanca investiti di emozionalità post metal), ciò che rimane, al passaggio dei Lorø, è un paesaggio disseminato di rovine fumanti. A tratti il meccanismo, nellansiolitica ambizione di spostare sempre più in alto lassicella del coefficiente tecnico, sinceppa (ed infatti A Trick Named God necessita di raffreddare le proprie rasoiate in un acquitrino dark ambient tutto sommato prescindibile): altrove, come in Faster, Louder & Better (Serpe In Seno corretti Motörhead, con qualche accenno ad una geometria superiore), il rischio concreto anche per durate spesso eccessive e non gestite sempre come sarebbe più opportuno: tantè che liniziale panzer electro-core di Pollock è anche uno dei migliori è di far prevalere la noia.
Lo dico, senza troppo campanilismo, ché chi suona occupa gli stessi chilometri quadrati di chi scrive: la curiosità di risentire, a breve, una versione appena più snella e variegata della band in azione lungo questi nove pezzi (lultimo, To Whom It May Concern, è una riedizione doom delle fissazioni dellintero platter: andamento sbilenco, distorsioni riarse, atmosfere cupe), è moltissima. Lattesa è che ci si comporti di conseguenza.
Tweet