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R Recensione

7,5/10

OvO

Miasma

Cor Cordium” (2011), “Abisso” (2013), “Creatura” (2016): nel giro di appena un lustro gli OvO di Stefania Pedretti e Bruno Dorella hanno cambiato radicalmente faccia agli approcci, ai contenuti e alle pratiche dell’heavyground tricolore, legittimandone concettualmente la ricerca sonora e portando ad un progressivo compimento formale una serie di istanze che, nell’oscura e prolifica produzione precedente (specialmente in “Miastenia” del 2006 e in “Crocevia” del 2008), soffrivano ancora il peso di un’estrinsecazione attraverso medium non sempre adeguati. Da qui, si può solamente guardare avanti: e cioè nei lovecraftiani colori venuti dallo spazio, in un vuoto pneumatico che si spalanca con crescente velocità e con orrorifica voracità, nel bellicoso passo d’addio dell’uomo alla propria casa terrena. L’inevitabile catastrofe vista dagli e con gli occhi degli ultimi, dei ripudiati, dei condannati. “Miasma”, atto celebrativo del primo ventennale del duo lombardo, è il manifesto politico definitivo degli OvO, il momento in cui la rivendicazione controculturale e altroterritoriale di freaks e forze oscure sorpassa l’asticella dell’happening e si propone come unico, coerente argine alla degenerazione imperante (“Queer Fight”, come recita l’omonima, bombastica dichiarazione di guerra).

Registrato in svariate località dell’Italia rurale (legame tematico adamantino con il capitolo precedente) e sviluppato in maniera similare ad “Abisso” e “Creatura”, a partire da una serie di pattern percussionistici di Dorella poi trasformati e samplizzati dagli amici e colleghi di sempre (i compagni di scuola Sigillum S Eraldo Bernocchi e Paolo Bandera, Matteo Vallicelli di The Soft Moon tra gli altri), “Miasma” riesce nell’impresa di ampliare ulteriormente gli orizzonti stilistici del recente passato, imboccando tre traccianti fondamentali e fra loro variamente complementari: l’aggressività metallica, l’eterogeneità dei featuring e, per quanto possa far sorridere quest’ultima attribuzione, il teatro-canzone. Il tentativo superordinato soggiacente agli episodi più ruvidi della tracklist è quello di mediare l’heavyness “altra” di “Creatura” con il recupero di forme espressive più dirette. L’effetto volumetrico è comunque garantito su più livelli, ma le chitarre si fanno in qualche modo più scartavetranti, aggressive. “Mary Die” è un singolo che non lascia scampo, una rasoiata terra aria che scaraventa le lallazioni mefistofeliche della vecchia “Marie” in un tritacarne noise-industrial di ottundente possenza ritmica. “Psora” (la prima fase della rappresentazione alchemica del miasma) è il momento in cui l’hardcore sprofonda in un baratro sludge di ringhi animaleschi, frequenze basse e rigurgiti elettronici. “Incubo”, infine, frantuma l’arena con un post-core di sole macerie che, in coda, si vaporizza in uno spaventoso affresco dark ambient. Le regole del gioco, così come apprese, tornano poi a sparigliarsi con l’inserimento degli ospiti esterni, che introducono un coefficiente supplementare di imprevedibilità: se dunque “Burn De Haus”, dove compare Gabriele Lepera degli Holiday Inn, è un panno merseybeat armonicamente destrutturato e sciacquato nell’Acheronte e il lungo recital minimal-noise de “L’Eremita” (ospiti gli interi Årabrot) riattualizza la sinistra dimensione rituale di precedenti esperimenti come “A Dream Within A Dream”, è lo schiaffo roboante di “Testing My Poise” (con il sornione e quasi abulico ciondolare delle rime della trapper serba Ana Rab a.k.a. Gnučči inghiottito da colate di furibonda elettricità: una vicinanza insolita, ma già suggerita nel sorprendente inedito “Mondo”) a imporsi con autorità.

A saldare in un’unica catena le une e le altre, infine, v’è l’anello conclusivo della title track, quarto eccedente e stadio risolutivo della triade che, oltre a “Psora”, include anche “Lue” (rituale esoterico disperso in un vortice di suono indistinto) e “Sicosi” (ugole smembrate, terminali lacerazioni techno-core). Immaginate la Carla Bozulich di “Fly Little Demon” e la “solita” Diamanda Galás ad intonare a cappella un de profundis per il ballo d’esordio della Morte Rossa: una lenta agonia fonosimbolica che, sullo sfondo di lugubri rintocchi pianistici, comincia ad animarsi di vita propria, a perdere il controllo, ad accendersi di forza animalesca e a precipitare, infine, in un dirupo senza fondo di angosciante, totalizzante rumore bianco. Il silenzio, tutto a un tratto: un silenzio irreale, ingiustificabile. Fine dei giochi o calata del grande sipario? “Miasma” è vita, o ciò che ne resta: dunque anche teatro.

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