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R Recensione

6,5/10

Todo Modo

Todo Modo

Per carità: non è il Bologna degli anni ’30, lo squadrone che tremare il mondo fa. Tuttavia, al tempo della controcultura – ci mettiamo la mano sul fuoco – sarebbe stato uno di quei progetti ammantati di mistero da consumare nel segreto e tramandare, gelosamente, ad amici e parenti più stretti. Non viene certo agevole immaginare un Luciano Cilio al posto di Paolo Saporiti, sostituire il ghigno mefistofelico di Xabier Iriondo con quello serafico di Paolo Tofani, sovrapporre Walter Martino a Giorgio Prette: altri generi, altre storie, altra caratura. Ciò nonostante Todo Modo – riferimento alla nerissima pellicola di Elio Petri (1976) prima ancora che al severissimo Ignazio da Loyola: corsi e ricorsi della storia – incute parimenti rispetto e timore. Rispetto, per il ruolino di marcia dei protagonisti principali: il cantautore italiano migliore su piazza al momento (assieme ad Alessandro Fiori e Cesare Basile: non a caso, tutti e tre accuratamente sottoesposti) in combutta con il terrorista sonoro dai mille gruppi e dalle altrettante volontà e con un motore ritmico, Giorgio Prette, legato ad Iriondo per la decennale frequentazione comune negli Afterhours. Timore, per i devastanti risultati già concretizzati negli anni dal tandem Saporiti-Iriondo (coppia di fatto già a partire da “L’Ultimo Ricatto” del 2012) e per la scelta inconsueta del terzo, alieno – per età, esperienza, curriculum – alle parabole più ardite dei compari.

Davanti ad assembramenti di cuore e pancia quale è, pienamente, Todo Modo, si ha quasi paura di spendere parole superflue, di tessere paragoni sconvenienti, di mancare il bersaglio. Ipercorrettismo censorio, per certi versi, giacché il disco – potenzialmente urticante, inclassificabile – si limita a mescere singole fissazioni di ogni musicista in una quadra millimetrica, per quanto non sempre esaltante. L’Ego schizofrenico del songwriter milanese riemerge, fratturato e controverso, solo a sprazzi, in modi e circostanze definiti dal contesto (il light noise di “La Pancia Di Milano”, le innocue ventate alt-grunge sul sinuoso corpo percussionistico di “Puttane E Miele”). Paradossalmente – ma nemmeno troppo – è il talento melodico di Saporiti a spiccare, nelle armonie strumentali non meno che nella cura delle linee vocali. In questo senso, il semplice ed efficace reticolato british di “Togli Le Mani Da Lei”, supportato dal battito minimale in controtempo di Prette e dal romanticismo siderurgico per sei corde di Iriondo, è uno degli apici recenti di una ricerca musicale in perpetuo movimento. Molto più frequentemente, piuttosto, si ricordano sprazzi, intuizioni, illuminazioni, segni caratteristici di un linguaggio discontinuo ed instabile. I calcinacci elettronici che franano, deturpandola, su “Il Mio Amore Per Lei” – torch song schematica, quasi parodistica – (vero), il levare zoppicante di una “Soffocare” che mette d’accordo Big Black e Damien Rice (vero), il trogloditico e sgraziatissimo lick hard rock di “Come Fossi Dio” (vero), gli schizzi di acido che scalfiscono il proto-doom pietrificato di “Alle Volte” (vero), la nenia mesmerizzante di “L’Attentato” affogata nei feedback (vero)…

Plumbea e claustrofobica la pellicola, plumbeo e claustrofobico il disco, anche se ancora lontano da un’eterogeneità e da una completezza d’intenti che l’avrebbero reso, quantomeno, più longevo. Assolutamente non disprezzabile, ci si intenda (anche se l’iperproduttività di Iriondo, nuovamente in pista ad inizio anno con il secondo capitolo di Cagna Schiumante e con l’esordio del supergruppo Buñuel, rischia di oscurarne visibilmente la luce) ma, coraggio per coraggio, riteniamo migliori gli idiomi ibridi di cui sono permeati gli ultimi due full length di Saporiti. Ampiamente perfettibile – e per questo del tutto degno di un seguito che ne sviluppi a 360° i germi.

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