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R Recensione

8/10

Crippled Black Phoenix

The Resurrectionists

L’ascolto di “The Resurrectionists”, secondo del doppio cd composto dai Crippled Black Phoenix, porta sostanzialmente a due conclusioni: una buona e una cattiva. Visto che troppo spesso la seconda viene anteposta alla prima, proviamo ad invertire l’ordine degli eventi e a concederci qualche spiraglio in più di positività.   

Finito il primo giro, si ricomincia subito con l’altro. E si riprende, esattamente, da dove la cheta disperazione di “I Am Free, Today I Perished” ci aveva lasciato: un muro di tastiere, che sfuma pian piano in un confronto intimo fra voce e pianoforte e srotola il tappeto rosso all’impianto di “Burnt Reynolds”, post rock introspettivo dei migliori (che dentro suoni Dominic Aitchison, bassista dei Mogwai, non è casuale) con chiusura corale. Tracklist e minutaggio più corposi a parte, il disco presenta un mood diverso da quello di “Night Raider”. Parlando in linea di massima, l’impressione che si ha è quella di assistere ad un’opera dove il senso di smarrimento è sensibilmente più elevato, nella costruzione musicale, nella sovrapposizione delle voci, nella frammentazione della materia compositiva. Non sempre i risultati sono brillanti come quelli del fratello gemello, ma a questo contribuisce anche un manto di umanità e corporeità, azzarderei, che nell’altra prova veniva sfumato a favore di una dimensione più mitica, eroica, contestualizzata, epica. Qui, di magniloquente, non vi è praticamente nulla.

A voler aggiungere un’ulteriore nota a margine, diremo anche che la stessa musica diviene più solida e meno sfumata, più compatta e meno disponibile a cedere alle lusinghe della psichedelia: “Rise Up And Fight”, a dirne una (bellissima, per inciso), tira sciabolate a destra e a manca, in una sorta di hard-space rock che decolla nell’immediato.   Tuttavia, bisogna tenere conto che l’habitat ideale dei Crippled Black Phoenix è, decisamente, meno vicino alle chitarre pesanti (“444”, proto-grunge troppo azzardato) e più, invece, alle atmosfere soffuse e solitarie che soli possono generare certi involucri acustici (“Whissendine”) o, meglio, ballate post-nucleari per sola voce e piano con anima sacra e ricoperto profano (prima “Please Do Not Stay Here”, vero e proprio ambient isolazionista, poi “A Hymn For A Lost Soul”, sorta di redenzione catartica). Una carezza per le orecchie ed una ganascia stretta attorno al cuore, in altre parole. Altrove, invece, nemmeno l’intervento risanatore del violoncello riesce a raddrizzare pezzi traballanti e dalla discutibile utilità finale (“Little Step”, un po’ troppo lunga e paradigmatica). 

Per questa volta va maluccio, quindi? Affatto: il senso di ricchezza e varietà che lascia “The Resurrectionists”, sempre e comunque, è così forte da non mollare mai l’ascoltatore. Non è un eviscerare generi a caso, giusto perché fa tendenza suonare quante più cose possibile, anche senza le capacità necessarie per farlo: la ricerca costante del gruppo verso nuovi agganci, appigli strategici, invenzioni strutturali, costruzioni e decostruzioni di melodie ha un che di socratico e, certamente, è degna di essere ammirata. “Crossing The Bar”, da un semplice giro di chitarra acustica, si trasforma in un incubo in retromarcia, con un pianoforte lanciato a scavare solchi profondissimi verso il nulla (l’effetto, ve lo garantisco, è scioccante!): “200 Tons Of Bad Luck”, forse il brano più bello e struggente dell’intero doppio, fa parlare ipsum Ossian in un caracollante madrigale per fisarmonica, archi e cordofoni dall’enorme potenza emotiva, fungendo quindi da ideale bilancia. Un colpo al cerchio ed uno alla botte.    

Poi, se ad un certo punto gli stessi Crippled Black Phoenix si mettono a suggerire attraenti strade interpretative per i loro pezzi, la cosa non può passare inosservata. Ecco, perciò, che sul loro MySpace, come sfondo per la pantagruelica “Song For The Loved” (quasi quattordici minuti), compare una sbiadita foto tonalità seppia che raffigura due persone anziane. È, in effetti, un vero e proprio ciclo vitale quello che si esaurisce nel pezzo, dall’andamento sovente strascicato, il più delle volte dolente, con un’ultima apertura finale, sorretta da una rete di tastiere e violoncello che fa gridare al miracolo. Ve la ricorderete per molto, molto tempo.   Bene, con le notizie buone ho finito.  

Come dite, manca ancora quella cattiva? È estremamente semplice: non ce n’è più per nessuno.

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Voto degli utenti: 7,8/10 in media su 12 voti.

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Alessandro Pascale (ha votato 8 questo disco) alle 11:10 del 29 maggio 2009 ha scritto:

io ci sento davvero tanto dei pink floyd in questi due dischi dei CBP...Ma tanto tanto...e cmq son fichi sì!

target (ha votato 8 questo disco) alle 21:03 del 29 maggio 2009 ha scritto:

Rispetto a "Night raider" è un disco più di questa terra, in effetti, con passaggi più muscolosi ("Rise up and fight", "444", che pure non mi dispiace, con quell'aria mediorentiale che le dà il violino) e momenti di intimismo che partecipano più dell'umano che dell'epico ("200 tons of bad luck" è davvero un pezzo che lascia sbalorditi, pastorale natalizia dal passo ciondoloso e strascicato, che ha dentro tantissima malinconia sciolta in lacrime). Rispetto all'altro, poi, questo è più cantato, e alla fine dribbla talmente tanto i generi con passi doppi a iosa che ne canonizza uno, che è quello tutto loro delle endtime ballads (e anche "Little step", in questa prospettiva, a me pare bellissima); gli stessi Black Heart Procession sembrano un riferimento un po' meno vicino, perché più incupito. Mezza tacca più di "Night raider" anche per una compattezza maggiore.

target (ha votato 8 questo disco) alle 21:21 del 29 maggio 2009 ha scritto:

Cito anche la finale "Human nature dictates the downfall of humans" che, oltre ad avere un titolo notevole, mette i brividi ad ogni ascolto: 7'40'' eccellenti, con l'attacco sospeso tra il piano e il violoncello, e la coda esaltata dal crescendo orchestrale e dalla voce di Volk (che una parola la merita, perché ha un suo piglio grunge-introverso distintivo, malgrado lui rimanga il più cazzaro della band).

fabfabfab (ha votato 8 questo disco) alle 13:03 del 4 giugno 2009 ha scritto:

Quindi questo è quello che mi piace di più, con quella suite iniziale molto vicina a certi Pink Floyd e Dominic Aitchison libero di fare ciò che i Mogwai non gli permettono più. L'accoppiata di questi due dischi è micidiale: per l'impegno necessario ad assimilarli (complimenti Marco) e per la quantità di note, passaggi e melodie che danno vita ad una delle esperienze sonore più coinvolgenti (e, per certi versi, sconvolgenti) di questa parte del 2009.

swansong alle 12:24 del 24 giugno 2009 ha scritto:

Latte di tigre...

và a bere il latte della mamma che è meglio!

tigermilk (ha votato 1 questo disco) alle 12:37 del 24 giugno 2009 ha scritto:

RE: Latte di tigre...

va' si scrive con l'apostrofo e non con l'accento!

doopcircus alle 12:48 del 24 giugno 2009 ha scritto:

Ecco come si fa

A perdere il diritto di voto in pochi minuti

Complimenti

paolo gazzola alle 13:45 del 24 giugno 2009 ha scritto:

Grazie per l'efficienza.

BeAfraid (ha votato 10 questo disco) alle 12:57 del 15 novembre 2009 ha scritto:

troppo grande.. troppo pieno..

oggi la prova del 9.. suoneranno a bologna..

BeAfraid (ha votato 10 questo disco) alle 12:58 del 15 novembre 2009 ha scritto:

troppo grande.. troppo pieno..

oggi la prova del 9.. suoneranno a bologna..

Roberto (ha votato 8 questo disco) alle 18:22 del 22 dicembre 2009 ha scritto:

Quando un album così denso supera la famigerata prova dell' ascolto ripetuto e reiterato significa che il livello è decisamente alto. In tempi dove esce un disco ogni ora e dove la possibilità di dedicarsi all' ascolto è direttamente proporzionale al tempo a disposizione e il subitaneo abbandono di album deludenti una infelice costante, una prova di tale spessore va elogiata senza indugi. Il mio giudizio complessivo, seppur conscio delle sottili differenze, riguarda anche "Night Raider" dato che l' acquisto dell' album contiene entrambi i cd.

target (ha votato 8 questo disco) alle 17:19 del 21 maggio 2010 ha scritto:

Continua a stupirmi non poco la scarsa considerazione dei Crippled Black Phoenix (con l'eccezione di storia, ovviamente, dove li adoriamo da tempo). Visti ieri dal vivo, dove hanno confermato un impatto anche live assolutamente micidiale. In otto sul palco: tre chitarre (l'acustica di Joe Volk, l'elettrica di Justin Greaves e la solista di Karl Demata, che a dispetto del nome è un simpaticissimo napoletano!), batteria, basso (non più, però, con l'uomo dei Mogwai), violoncello, tastiere, organo. Un suono potente, corposo, ma mai indistinto. Roba che col post-rock c'entra poco, anche per la varietà dei pezzi in curriculum (e il tono grunge di Volk, dal vivo, è ancora più incisivo: davvero una gran voce). Sontuosi. Da qui è uscita una splendida "Burnt Reynolds" (e poi "Rise Up And Fight", "Song For The Loved" e "444"). Apice i 18 minuti fatti per intero di "Time of ye life/ Born for nothing/ Paranoid arm..." da "Night raider". E in estate esce il disco nuovo. Ingiusto e oggettivamente depistante vedere in loro una propaggine attardata di post-rock, come spesso si legge in giro. Sono altro, e lo sono di classe.

Marco_Biasio, autore, alle 21:40 del 21 maggio 2010 ha scritto:

RE:

Non suona più Aitchison? Gran peccato... Disco nuovo in estate??? Hanno una prolificità incredibile

target (ha votato 8 questo disco) alle 22:00 del 21 maggio 2010 ha scritto:

Non so, forse semplicemente non li segue in tour. Il nuovo bassista è Chris Heilmann, un cinquantenne mezzo scoppiato dal portamento scandinavo già al fianco di Alice Cooper. Sì, il disco nuovo in realtà durerà solo 45 minuti: una lunghezza normale per qualsiasi gruppo, una sveltina per loro...