Crippled Black Phoenix
The Resurrectionists
Lascolto di The Resurrectionists, secondo del doppio cd composto dai Crippled Black Phoenix, porta sostanzialmente a due conclusioni: una buona e una cattiva. Visto che troppo spesso la seconda viene anteposta alla prima, proviamo ad invertire lordine degli eventi e a concederci qualche spiraglio in più di positività.
Finito il primo giro, si ricomincia subito con laltro. E si riprende, esattamente, da dove la cheta disperazione di I Am Free, Today I Perished ci aveva lasciato: un muro di tastiere, che sfuma pian piano in un confronto intimo fra voce e pianoforte e srotola il tappeto rosso allimpianto di Burnt Reynolds, post rock introspettivo dei migliori (che dentro suoni Dominic Aitchison, bassista dei Mogwai, non è casuale) con chiusura corale. Tracklist e minutaggio più corposi a parte, il disco presenta un mood diverso da quello di Night Raider. Parlando in linea di massima, limpressione che si ha è quella di assistere ad unopera dove il senso di smarrimento è sensibilmente più elevato, nella costruzione musicale, nella sovrapposizione delle voci, nella frammentazione della materia compositiva. Non sempre i risultati sono brillanti come quelli del fratello gemello, ma a questo contribuisce anche un manto di umanità e corporeità, azzarderei, che nellaltra prova veniva sfumato a favore di una dimensione più mitica, eroica, contestualizzata, epica. Qui, di magniloquente, non vi è praticamente nulla.
A voler aggiungere unulteriore nota a margine, diremo anche che la stessa musica diviene più solida e meno sfumata, più compatta e meno disponibile a cedere alle lusinghe della psichedelia: Rise Up And Fight, a dirne una (bellissima, per inciso), tira sciabolate a destra e a manca, in una sorta di hard-space rock che decolla nellimmediato. Tuttavia, bisogna tenere conto che lhabitat ideale dei Crippled Black Phoenix è, decisamente, meno vicino alle chitarre pesanti (444, proto-grunge troppo azzardato) e più, invece, alle atmosfere soffuse e solitarie che soli possono generare certi involucri acustici (Whissendine) o, meglio, ballate post-nucleari per sola voce e piano con anima sacra e ricoperto profano (prima Please Do Not Stay Here, vero e proprio ambient isolazionista, poi A Hymn For A Lost Soul, sorta di redenzione catartica). Una carezza per le orecchie ed una ganascia stretta attorno al cuore, in altre parole. Altrove, invece, nemmeno lintervento risanatore del violoncello riesce a raddrizzare pezzi traballanti e dalla discutibile utilità finale (Little Step, un po troppo lunga e paradigmatica).
Per questa volta va maluccio, quindi? Affatto: il senso di ricchezza e varietà che lascia The Resurrectionists, sempre e comunque, è così forte da non mollare mai lascoltatore. Non è un eviscerare generi a caso, giusto perché fa tendenza suonare quante più cose possibile, anche senza le capacità necessarie per farlo: la ricerca costante del gruppo verso nuovi agganci, appigli strategici, invenzioni strutturali, costruzioni e decostruzioni di melodie ha un che di socratico e, certamente, è degna di essere ammirata. Crossing The Bar, da un semplice giro di chitarra acustica, si trasforma in un incubo in retromarcia, con un pianoforte lanciato a scavare solchi profondissimi verso il nulla (leffetto, ve lo garantisco, è scioccante!): 200 Tons Of Bad Luck, forse il brano più bello e struggente dellintero doppio, fa parlare ipsum Ossian in un caracollante madrigale per fisarmonica, archi e cordofoni dallenorme potenza emotiva, fungendo quindi da ideale bilancia. Un colpo al cerchio ed uno alla botte.
Poi, se ad un certo punto gli stessi Crippled Black Phoenix si mettono a suggerire attraenti strade interpretative per i loro pezzi, la cosa non può passare inosservata. Ecco, perciò, che sul loro MySpace, come sfondo per la pantagruelica Song For The Loved (quasi quattordici minuti), compare una sbiadita foto tonalità seppia che raffigura due persone anziane. È, in effetti, un vero e proprio ciclo vitale quello che si esaurisce nel pezzo, dallandamento sovente strascicato, il più delle volte dolente, con unultima apertura finale, sorretta da una rete di tastiere e violoncello che fa gridare al miracolo. Ve la ricorderete per molto, molto tempo. Bene, con le notizie buone ho finito.
Come dite, manca ancora quella cattiva? È estremamente semplice: non ce nè più per nessuno.
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