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R Recensione

6,5/10

Dilatazione

The Third, The Last, My Everything

Non mi spingerei a definirla la produzione tricolore del decennio, ma se c’è un disco italiano contemporaneo che ho consigliato a cani e porci, tanto da far probabilmente fischiare le orecchie a quei toscanacci dei Dilatazione (e chissà che qualcuno abbia raccolto il consiglio!), quello è stato proprio “The Importance Of Maracas In The Modern Age”: il più classico degli ascolti che piombano fra capo e collo all’ignaro recensore e riaccendono, senza dare nell’occhio, ogni singolo entusiasmo smarritosi tra praterie (o Prati?) di dischi superflui. In questi sette biblici anni, confusi e felici tra le pareti di un divertente e divertito labirinto-pastiche electro-math-prog, abbiamo visto il progetto Dilatazione trasformarsi in una fucina creativa a tutto tondo, fra doppelgänger cinematografici (La banda del brasiliano, 2009, e Sogni di gloria, 2014, sono i due fantastici lungometraggi attribuiti a John Snellinberg) e proiezioni di big band da sonorizzazioni d’antan (rimanete sintonizzati, perché anche La Band Del Brasiliano, dopo il “Vol. 1” del 2013, ritorna in questi giorni con l’ecumenico “Vol. 2”). Quanto all’atteso successore di “The Importance Of Maracas In The Modern Age”, niente. O, per meglio dire, tutto e niente: annunciato ufficiosamente già all’indomani del “Vol. 1”, il terzo disco lungo dei Dilatazione è rimasto de facto congelato per anni, in una stasi forzosa che ha spinto il gruppo ad autofinanziarne, via crowdfunding, una tiratura limitata in vinile.

Questa logorante tensione interna è ben percepibile tra i solchi di “The Third, The Last, My Everything” (limpida dichiarazione d’intenti e spiritoso rimando a Barry White prima ancora che esplicito epitaffio), un lavoro che risolve lo straripante e luminoso eclettismo zappiano del suo predecessore in un ben più marcato contegno formale. Sarebbe esagerato, e poco veritiero, affermare che siamo di fronte ad un’altra formazione, non fosse altro per svariati passaggi che rilucono ancora di autentica e spontanea genialità anarcoide (l’irresistibile funk robotizzato di “Shakin’” interpretato da Davide Arnetoli e puntellato da una chitarra più battlesiana dei Battles, le sferzanti sciabolate tortoisiane della brillante “A Russian Passport For Steven Seagal”). Pur tuttavia è evidente che – nel mood complessivo, nell’interpretazione strumentale dei brani – il disco viva di un’oscura seriosità del tutto inedita, solo parzialmente mascherata da una copertina (opera del fotografo Rob MacInnis) che è metà grottesco sberleffo e metà inquietante foto di famiglia. È forse il pezzo conclusivo, “No Way Back From Borders” (confini politici o anche solo mentali?), a farsi pienamente megafono della nuova situazione, in un avanzare muscolare che a certe progressioni del primo post rock (la fragorosa chiusura in solitaria è esplicativa) abbina angolari ritmiche new new wave.

Ad essere sempre e comunque onesti l’impatto, per chi ha molto amato “Maracas”, non è semplice, specie quando a una maggior linearità di intenti non corrispondono canzoni altrettanto efficaci (e difatti il fluttuare electro-space di “The Paper Moon” annoia parecchio) o il dramma precipita in un cul de sac difficilmente gestibile (come nella milonga westernata di “Sunset Point Part 1”: assai meglio le rarefazioni motorik di “Sunset Point Part 2”). La morale è che “The Third, The Last, My Everything”, pensato per essere lavoro catartico e straight in the face, abbisogni paradossalmente di più ascolti di quelli dedicati ai capitoli precedenti e che certe sue sottili sfumature si colgano anche solo dopo parecchi giri (la stolidità galattica di “Rage Against Mandarino”, le pulsazioni kraut che erompono dal rigoroso crescendo strumentale di “Salvation Mountain”, le sfrangiature di vocoder in una “Pomodoro Pachino” eccezionalmente fisica).

Sebbene non sia sicuramente il disco più rappresentativo dei pratesi, né tantomeno il loro migliore, “The Third, The Last, My Everything” rimane un bel sentire e – nel suo piccolo – un autentico evento, il comeback insperato (e speriamo non isolato) di una delle intelligenze musicali più acute dello Stivale. Al banco di registrazione compare Andrea Cajelli, in una delle sue ultime prove prima della prematura scomparsa. 

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