Explosions In The Sky
Take Care, Take Care, Take Care
Non ci sono più le esplosioni di una volta...
Fino a qualche tempo fa, il post-rock faceva da sfondo a una guerra vera, ottocentesca per ideali, entusiasmi, dignità persino; il sangue scorreva a fiumi, eppure la maggior parte degli scontri si risolveva velocemente in una serie di ripetuti assalti a roccaforti, fortificazioni di resistenza o avamposti nemici, e cosa più importante, si manteneva un grande rispetto per la vita umana. Guerra breve, guerra intensa.
Ma l'immaginario di una futura guerra-lampo, in realtà anticamera bastardo di inutili carneficine umane ed infiniti patimenti di trincea, ha rovinato tutto: perché questa è diventata una fetta dell'ultimo post-rock, una prima guerra mondiale che si serve di armi automatiche per sputare proiettili su proiettili e fare quanto più rumore possibile, senza accorgersi di affondare in un mare indistinto di idee barbone ("Trembling Hands"). Le chitarre e la batteria si sostituiscono a tutto, prendono il posto di frazioni cantate, spezzoni in field recordings, profondissimi silenzi... e di tutti questi preziosi elementi, fondamentali a ricreare quella magia tipica del genere, non rimane che una scia lontana, del tutto estranea ai nuovi (perché di brutta rinascita si può parlare) Explosions In The Sky. In "Take Care, Take Care, Take Care", sesto loro album, c'è un primo e importante problema di fondo: ogni brano, immerso in un anonimato agghiacciante, si mimetizza e non si lascia distinguere, non incide a fondo in nessuna direzione ma si limita ad appiattirsi sulle note di chi suona e a scivolare sulla pelle di chi ascolta. Non fosse per i titoli di ciascun brano, l'intero album potrebbe apparirci come un unico blocco monolitico, talmente freddo e calcolato da prendere parecchie distanze persino con altri lavori dello stesso gruppo: laddove in "Those Who Tell The Truth Shall Die, Those Who Tell The Truth Shall Live Forever" e in "The Earth Is Not A Cold Dead Place" si manifestava un abile uso del silenzio, oltre che una minuziosa cura per gli arrangiamenti, peraltro al servizio di una splendida anarchia strumentale, per quest'ultimo lavoro il gruppo texano ha deciso di ridurre all'osso gli espedienti e lasciarsi guidare da una disarmante banalità compositiva.
Si alternano così le sei tracce dell'album, tra una batteria in perenne indecisione ritmica che si trascina parimenti dietro le chitarre ("Postcard From 1952"), una ridondanza melodica estenuante che gira su se stessa e non decolla mai ("Be Comfortable, Creature"), e inconcludenti digressioni noise ("Last Known Surroundings"). A reggere il filo del pathos solo un paio di climax degni di nota, il primo costruito bene da metà brano per pause e rallentamenti rarefatti ("Human Qualities") e l'altro, più breve, in un'incalzante parte centrale in controtempo ("Let Me Back In"). Troppo poco, comunque, solo improvvisi squarci d'interesse minimo in un'enorme tela di ripetitività.
Dopo i Mogwai, dunque, un altro buco nell'acqua per il genere, e in questo caso addirittura più profondo e preoccupante. Ma forse non sono le esplosioni ad essere cambiate, magari sono solo alcuni soldati che si sono stufati di combattere e preferiscono masturbarsi al fronte con le riviste...
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