Giardini di Mirò
Il Fuoco
Sono fermamente convinto che sino ad ora i Giardini di Mirò non abbiano mai deluso. Sebbene in forme differenti da album ad album, la band emiliana ha sempre prodotto opere più che dignitose, per quanto il suo capolavoro indiscusso rimane quel “Rise And Fall Of Academic Drifting”, superba prova d’esordio e patrimonio del post-rock internazionale.
Questa mia opinione è confermata anche dall’attenta analisi de “Il Fuoco”, ultima fatica della band emiliana, che contiene le musiche composte per l’omonima pellicola (di Giovanni Pastrone in collaborazione con Gabriele d’Annunzio), in occasione del suo restauro su commissione del Museo Nazionale del Cinema di Torino. Lo sforzo compiuto dai Giardini di Mirò viene considerato dagli stessi nel loro sito di fatto come il loro quarto album.
Proprio come la suddetta pellicola, l’album, composto da 12 brani senza titolo, è suddiviso in tre parti, ovvero “La Favilla” (le prime 7 tracce dell’album), “La Vampa” (ottava, nona e decima traccia) e “La Cenere” (gli ultimi due brani).
Come accadeva negli album precedenti, l’impronta è alquanto differente ma la matrice è pressoché inalterata. Sono sempre gli umori post-rock a ritornare, scomponendo e ricomponendo la sostanza fondamentale dell’opera. Costruito come un’unica traccia strumentale di circa tre quarti d’ora, “Il Fuoco” si dispiega progressivamente nelle sue atmosfere, di volta in volta impetuose, taglienti, pulsionali, oniriche, distese o rarefatte, con accenni ambient e di musica classica moderna, tra lievi orchestrazioni e rumorosità elettronica, in cui l’andamento pacato (prime 3 tracce) aumenta di intensità (quarta traccia), si decompone (quinta traccia), si ristruttura (sesta traccia), si irrobustisce (settima traccia), per poi di nuovo annichilirsi (ottava traccia) e, ancora una volta, rinascere (nona traccia), affievolirsi (decima traccia) e dipartire placidamente (ultime due tracce).
Continuità e discontinuità, dunque, negli umori e nelle sonorità sia tra una traccia e l’altra de “Il Fuoco”, sia tra un disco e l’altro dei Giardini di Mirò. Comunque, ennesima testimonianza della qualità artistica di una band che il proprio capolavoro lo ha già fatto. Lo ha fatto subito, forse troppo presto, godendo degli onori e delle glorie conseguenti, ma anche pagando il dazio nelle continue aspettative che le vengono riposte.
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