Gregor Samsa
Rest
I Gregor Samsa, lodevoli già dal moniker prescelto, sono una band della Virginia che declina il post rock (uno fra i più ampi e incensibili macrogeneri di questo inizio millennio) secondo una gradazione cameristica. Due voci (masculin, femminin: Champ Bennett e Nikki King) e un ensemble di sette musicisti grossomodo fissi, più eventuali contributi, che ribaltano la concezione strumentistica di questo genere di musica, affidando un ruolo preponderante, in chiave sia ritmica che melodica, ad elementi tipicamente orchestrali come il piano e il violino e relegando quelli tipici di una formazione rock al rango di fregi, metope, modanature, interventi circostanziati e minimali.
Crocevia fra dream pop (Sigur Ros), psichedelia (Godspeed You Black Emperor!) e slow core (Low), ma affrescati negli stilemi di una poetica molto personale, operistica, quasi ottocentesca. Dopo due ep, due split (con Red Sparrowes e The Sylent Type) e un album intero nel 2006, la loro crescita sembra giunta ad una svolta focale con il nuovo Rest.
Questo disco fa pensare alla bruma e al pulviscolo, a luoghi eterei e sperduti, al di fuori dello spazio e del tempo, eppure architettonicamente riconoscibili, come il capezzale nella stanza rococò che accoglie l’astronauta superstite di “2001 – A Space Odissey” alla fine del suo viaggio (e dei suoi giorni). Una suite in nove movimenti che, come un paziente arcolaio, intesse l’ordito delle voci e i lamenti delle corde, spettri che si agitano senza pace in una casa buia e stregata. Sedute spiritiche, fantasmi ribelli e passioni proibite che baluginano, simili ad ombre cinesi, su uno sfondo terso ed onirico. Melodie torpide ed ipnotiche, mesmerizzate, non del tutto sveglie, addormentate fra le braccia d’un oscuro potere. Inquietanti e tortuose.
The Adolescent dondola su un ouverture quasi new age che cede il passo alla lullaby della King, come avviluppata in un bozzolo di stupore, una corda di tenebra, un vetro ghiacciato che scherma il naturale espandersi del tempo fino a quando piano, archi e riverberi non si tramutano in un sample di voci e rumori di traffico, riportandoci, per un attimo, alla spuria realtà del dormiveglia.
Ain Leuh, invece, attacca con figure di piano classico prima di snodarsi nel duetto fra gli archi e la voce maschile/femminile (all’unisono o separate da un’ottava), qua e là punteggiata dal tam tam dei tamburi, dal jangle di una chitarra e da una lieve caligine di psichedelica Vittoriana.
Abutting Dismanting ha un incedere mantrico e battente (condotto prima dal piano e dai violini, poi dalla cassa), le voci si intrecciano, si estrapolano, si assorbono bisbigliando conte infantili in mezzo ad un florilegio di Ocus Pocus e segreti inconfessabili; Company è un intarsio di droni al cloralio.
Con Jeroen Van Aken si giunge al focus radiante dell’album, un gospel intonato dalle “Figlie della Rivoluzione Americana” su una forma ambientale fatta di cirri d’organo e scampanellii di vibrafono che si dirama nel finale fra i rivoli d’una cantilena evangelista, sospinta dal basso e da sussurri morenti come spiriti nella glottide d’una medium. Rendered Yards e Du Meine Leise sono lieder fiabeschi ed ectoplasmici degni di un Danny Elfman; Pseudonym, un’ urna tenebrosa da cui tracimano cantici salvifici, violini lugubri e spettrali come cipressi di notte e volèe di piano in crescendo fino al sibilo del theremin che strattona il cordone del sipario; First Mile, Last Mile, un acido tripudio di droni ululanti e larsen corrosivi.
Un disco importante, colmo di spettri barocchi, una pioggia che cola quieta sul volto e terge il sale delle lacrime, un film al rallentatore che scorre da sempre in un angolo della nostra mente. Un titolo di riguardo che avevo in serbo da un po’ e che merita di essere ripescato.
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