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R Recensione

7/10

Hammock

Departure Songs

Le canzoni della dipartita. O della partenza. Evocativo sin dal titolo, il quinto albo in studio del duo di Nashville. Un albo ambiziosissimo già a cominciare dalla durata e dal formato: un doppio cd che richiede circa cento minuti della vostra attenzione. In cambio promette di ripagarla integralmente, regalando infiniti momenti di astrazione. Con il timone pronto a dirigere la nave stellare capitanata da Marc Byrd e Andrew Thompson (chitarre e manipolazioni varie) verso oceani ora emozionali e rarefatti ora impetuosi e passionali, il piano di navigazione ha oggi tutto il tempo a disposizione per rendere quello di “Departure Songs” un viaggio di scoperta che non preclude alcuna sfumatura nella transizione da uno stato d’animo all’altro. Fanno parte dell’equipaggio una nutrita schiera di musicisti chiamati a dare concretezza alle epifanie celebrate durante la traversata: nello scorrere la lunga lista di strumenti (batterie, percussioni, trombe, corni, violini, viole, contrabbassi, violoncelli, l’angelica voce di Christine Glass Byrd), tornano alla mente “Spirit Of Eden” e “Laughing Stock”, ossia quei due immensi album nei quali i Talk Talk erano divenuti un ensemble aperto e in divenire. E il parallelismo con loro non finisce qui,

Tonight We Burn Like The Stars That Never Die è la miglior personificazione possibile del "Sigur Ros-pensiero": ammaliante ricerca ambientale condensata in una forma compiuta adagiata sulle eteree partiture del quartetto The Love Sponge Strings, verso le quali convergono voci siderali, synth avvolgenti, chitarre (anche acustiche), pulsazioni ritmiche dilatate, sogni, visioni e, nel finale, una immane estasi sensoriale. Estremamente compiuta è anche (Let's Kiss) While All The Stars Are Down, davvero la cosa più vicina ad un singolo che quest'album riesce ad offrire: l'andamento filologicamente rock richiama gli U2 "diretti" da Brian Eno, restituendo una prospettiva sonora  ugualmente terrena e spaziale. Ten Thousand Years Won't Save Your Life (con un finale che è tutto un volare d'archi e di suggestioni) poi sarebbe calzata a pennello in una delle colonne sonore di Peter Gabriel, sintetizzando in maniera cristallina il fascino incorporeo emanato dai luoghi nei quali si va a "cercare" se stessi e quello umanissimo insito nel desiderio di "ritrovarsi". Together Alone, che la segue nella tracklist, è una sua propaggine e pare ribadire che nei confronti di una musica si instaura sempre un rapporto intimissimo, individuale, anche quando si è in migliaia ad un concerto: ognuno può cogliere solo la propria versione di quella verità che sembra lì a portata di mano di tutti, in modo incontrovertibilmente condiviso.

Spesso in "Departure Songs" (mixato da Tim Powles dei Church, che aveva anche collaborato insieme a Steve  Kilbey – storico vocalist della band australiana –  al precedente EP “Asleep In The Downlights”) ricorre quel particolare sentimento che espande lo spazio e il tempo e che, nonostante ciò, ti fa centellinare le particelle di musica catturate in questa densa rete percettiva, fino al punto di non volerle far scappare via. Pathos e All Is Dream and Everything Is Real interpretano al meglio questa immaginifica magia strumentale che trasmette la voglia di travalicare - con i sensi - la siepe che di tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.

Non sarà interamente dal sapore inedito la mistura distillata dagli Hammock (Jonsi & soci appunto, Epic45, Yellow6, Mogwai, Explosions In The Sky, Stars Of The Lid, no-man...), ma il retrogusto è talmente unico e sottile da restituire l'idea (o anche semplicemente l'illusione) di un qualcosa esente da imitazioni e dalla mera riproposizione di un'arte altrui. Per forza di cose i quadri sonori non si palesano mai con concitazione: lo spirito è disteso, vigile, sempre proteso ad indugiare in questa pensosa metamorfosi, sempre costantemente sospinto in avanti. In quest’ottica molto incide l’approccio minimalista di stampo drone di Byrd & Thompson.

Perché è certamente vero che i crescendo, le aperture, le reiterazioni, l'inclinazione verso una pittura ambientale, l'uso della melodia a fini sinestetici, la ricerca di vibrazioni riverberate, il ricorso a chitarre dall'ampio respiro, l'utilizzo di batterie al rallentatore popolano abbondantemente i tanti episodi di "Departure Songs", ma è altrettanto vero che l'impostazione estetica del duo statunitense è tale - e di tale portata - da trascendere i risultati "classici" del post-rock. Se poi ad essere perseguite sono alcune delle derive geografiche del genere - di cui sono comunque già noti i toponimi - ciò non può che giocare a favore di una formazione che, cercando le location più idonee per rappresentare le proprie soundtracks, non si pone limiti nel citare altri "registi" musicali.

I paesaggi naturali (reali o vagheggiati) e i ritratti dell'anima si stagliano su uno sfondo cromatico di grande vividezza e prendono vita in un lasso temporale che - nonostante qualche fisiologica dilatazione di troppo - vorresti non finisse mai, felice di perderti in un luccicante mare di risonanze oniriche.

"Departure Songs" appartiene a questo mondo e, contestualmente, ne é distante. Non cerca a tutti costi di essere un ponte fra le due rive dimensionali: vuole semplicemente essere un'isola sospesa nell’intangibile, che attende i suoi visitatori non come li attenderebbe una meta turistica, ma che è pronta – almeno per la durata del soggiorno – a far scendere l’oblio sul loro luogo di provenienza. Un disco da cui farsi pervadere.

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C Commenti

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alburno (ha votato 7,5 questo disco) alle 19:27 del 27 settembre 2013 ha scritto:

Avevo inizialmente accantonato quest'album, un po per il tempo che richiedeva all'ascolto e un po per diffidenza nei confronti dell'ultimo post rock/dream pop, oramai giunto ad una mera copia di se stesso, difficilmente capace di suscitare emozioni che non avessi già provato in lavori altrui o nei loro precedenti, tra cui il bell'album che lo precede. Durante un lungo viaggio d'estate lo riprendo casualmente e ancora diffidente lo introduco nel lettore dell'auto... da lì in poi è un lento, ma intenso amore; ogni singolo acquisisce a poco a poco colori, immagini... ricordi propri. La cura strumentale è tale che ogni ascolto sorprendeva per intuizione e/o interpretazione, seppur non sempre originali, ma sempre di altissima qualità. Si tratta di un disco di genere che ancora riesce a sorprendere e farsi amare, in quanto riesce a colmare i vuoti lasciati ultimamente da colleghi del settore ben più blasonati. Per chi ama lasciarsi trasportare (rende meglio alienare..) dalla musica come il sottoscritto, non posso che consigliarlo. Complimenti per la recensione...