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R Recensione

7,5/10

Joan of Arc

A Portable Model Of

Reduce dal precoce salto nel vuoto con i Cap’n’Jazz, nel 1997 il giovanissimo Mike Kinsella si butta di ginocchia in un mondo da lui immaginato e creato, dove fanno amicizia il pathos lacerato dell’emo-core che verrà, il folk disossato di cantautori post-moderni come Smog e l’ambizione concettuale del post-rock.

Kinsella usa queste armi come trampolino verso la gloria: “A Portable Model Of” è in effetti un disco di post-rock tagliente e sbalorditivo che possiede un’anima da cantautore-adolescente confuso.

A stupire, più che l’approccio indie dolente e intimista, è quindi la capacità di convogliare le istanze della musica “emo” in luoghi più adatti ad artisti come i Gastr Del Sol o i June of ’44.

Il risultato di questo coraggioso esperimento è forse un po’ acerbo, gronda di una creatività ancora incontrollata, ma questo non è necessariamente un difetto.

E anzi, per la verità, ho sempre creduto che l’alternative-rock americano godesse di un sostanziale vantaggio sugli “avversari” britannici grazie alla sua indole libertaria, al suo approccio intuitivo e disinibito, che io considero preferibile allo stile iper-elaborato, iper-meditato e affettato di molto pop d’oltremanica.

Definire con esattezza il “genere” dei Joan of Arc, al di là delle varie coordinate tracciate dai nomi sopracitati, non è facile: alcuni brani nascono all’insegna di un folk spartano e soffocato (“Caliban”), quasi Smog che interpreta John Fahey; altrove Kinsella azzarda brani concettualmente più complessi, una sorta di suite per dissonanze sgradevoli (“Count to a Thousand”), oppure si butta sul rumore stratificato (“Romulans!Romulans!”, il confuso finale dell’ultima traccia), o ancora su quello casuale e affilato della straniante “In Pamplona”.

La melodia compare e scompare, obliqua e imprendibile: però quando passa lascia tracce profonde (“I Love A Woman (Who Loves Me)”, l’accorata “The Hands”, la dolente “Anne Aviary”, disturbata da cinguettii e da una melodia spezzata, che si frattura passo per passo), benché costipata dentro anti-ballate de-strutturate che sono fra i momenti migliori del disco. Come la bellissima "Let's Wrestle", il mio pezzo preferito.

In sostanza, Mike nel 1997 doveva ancora mettere a fuoco il bersaglio, ma la sua energia creativa – apparentemente naif – sprigionava già una luce sinistra e affascinante.

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