Joan of Arc
Boo! Human
Non ditelo troppo ad alta voce, ma il post-rock è ancora qui. Esiste tuttora, ammesso che lo abbia mai fatto realmente. Perché l’impressione è che la definizione “Post-rock” fosse solo un contenitore vuoto in cui riporre tutto ciò che non si poteva classificare.
C’è stato un periodo in cui tutti ascoltavano post- rock, tutti suonavano post-rock e tutti parlavano di post-rock. C’erano centinaia di bands post-rock a Chicago, riunite intorno allo studio di registrazione di John McEntire dei Tortoise, altrettante a Louisville, tutte adepte di “Bible silver corner”(primo pezzo dell’album “Rusty” dei Rodan) e c’era una scena post-rock nel Regno Unito (Mogwai, Arab Strap …). Era post-rock il modernariato degli Stereolab e la canzone d’autore degli Smog, lo slow core dei Bedhead e il delirio ritmico dei Don Caballero, il rock da camera dei Rachel’s e quello spigoloso dei June of ’44, il punk sghembo degli Shellac e le ballate morbide dei Red house painters. Ad un certo punto si avvicinarono al post rock anche i Sonic Youth (“N. Y. C. ghosts and flowers” – 2000, con Jim O’Rourke in formazione), i Fugazi (“The Argument” – 2001), e più recentemente Vic Chestnutt (“North star deserter” – 2007, interamente suonato da membri dei Godspeed you black emperor).
Queste strane convivenze furono rese possibile solo dalla geniale (o stupida?) genericità della definizione coniata dal critico musicale Simon Reynolds. Insomma, il post punk deve contenere almeno una matrice “punk”, l’hard rock deve avere una connotazione “hard”ed il nu-metal dovrà avere una connessione con il metal. Ma il post-rock? Se consideriamo che la definizione “rock” può classificare un’area musicale che va da Little Tony ai Motorpsycho, affermare che esista una matrice “rock” non è un grande indizio. Se in più aggiungiamo il suffisso “post” siamo finiti.
Allora facciamo così, atteniamoci all’etimologia della definizione e concludiamo che il post-rock è solo la destrutturazione della canzone rock, idea nata con alcune bands di Chicago che utilizzavano l’impianto rock al servizio di musica che superava (post) la forma-canzone rock. Bene, allora il post rock è Mike Kinsella. Uno che di mestiere fa il barista al Rainbo (la Mecca del post-rock di Chicago) e nel tempo libero suona nei Cap’n Jazz, negli Sky Corvair, negli Owls, nei Friend/Enemy, nei Make Believe, negli Everyoned, nei Tim Kinsella(s) e soprattutto nei Joan of Arc. Uno che ha preso il punk emotivo dei Fugazi e lo ha deviato verso forme “arty” nei primi album dei Joan of Arc (“A portable model of “ e “How memory works”), uno che, sempre come Joan of Arc, ha pubblicato un capolavoro come “The gap” nel 2000, album inclassificabile (e che quindi definiremo post-rock), scrollandosi di dosso l’odiata etichetta “emo”, felicemente ceduta ai Promise ring dell’ex compare (nei Cap’n Jazz) Davey von Bohlen.
Mike è ancora tra noi. Anche se di post-rock non si parla quasi più (o se ne parla a sproposito, per gruppi come Sigur Ros o Explosions in the sky). Anche se il solo pronunciarne il nome in pubblico potrebbe attirarvi sguardi di compassionevole riprovazione come se diceste “a me il governo Prodi non dispiaceva” in un centro sociale. Eppure Mike è ancora tra i migliori (post)rockers e (post)songwriters in circolazione: con la sua voce stonata (“So and so”, per chitarra acustica e voce, sembra Damien Rice alle prove della recita scolastica di seconda elementare), con i suoi ritmi geometrici (“Laughter reflected back”, più Joan of Arc di così … ) e con tante novità.
Il vero esperimento per i Joan of Arc è dare alle canzoni una struttura lineare (“Just pack or unpack”, jam session fra i Tortoise e i Police?), una melodia compiuta che conduca il pezzo alla fine (“A tall-tale penis”, splendido intreccio di chitarre e piano). Tentativi in verità già portati a termine nel precedente “Eventally, all at once” del 2006.
Ma in “Boo! Humans” non c’è solo l’abbandono della destrutturazione della canzone compiuta col già citato “The gap” e con il suo successore “So much staying alive and lovelessness” (2003). C’è molto di più: ci sono semplici arpeggi di chitarra a sostegno di una voce in (stonato) falsetto (“Shown and told”); c’è una formazione allargata (violini, viola ed organo in “9/11 2” e “If there was a time 2”, sintetizzatori in “The surrender 1”); e almeno un brano perfetto, quel “Vine on a Wire” in cui, Mike, tra chitarre rubate agli ultimi Blonde Redhead e rimandi ai Modest Mouse più melodici, canta “The only impossibile thing has happened”. L’impossibile è accaduto: a Chicago suonano ancora ottimo post-rock. La sola cosa veramente impossibile sarebbe scrivere diciannove volte la parola “post-rock” e neanche una volta la parola “Slint”. Ma io non sono mica Mike Kinsella.
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