Long Distance Calling
The Flood Inside
Mancava poco, davvero poco, per spiccare in definitiva il volo. Le capacità strumentali, già in dono dai primissimi passi, si andavano affinando disco per disco, e con esse la compattezza del songwriting e la volontà di saper mischiare le carte al punto giusto, al momento giusto. Tra i sempre più sparuti nomi di punta a salvarsi dal naufragio collettivo e, anzi, a proporre ancora con gusto e convinzione la propria, raffinata idea di post rock (oggidì non significa alcunché, ne conveniamo), i tedeschi Long Distance Calling erano la lepre a cinquanta metri dal traguardo, con qualche giorno e settimana di vantaggio sulle decrepite tartarughe a (non) inseguire. Senonché quel vizietto, cresciuto sino a farsi abitudinario, di investire, ogni qualvolta lo si sentisse necessario, una voce esterna ad interpretare con sovrabbondanza e patetismo non necessari, finanche fastidiosi un brano della tracklist, sembrava sempre ritardarli di qualche attimo, di qualche secondo: Peter Dolving, Jonas Renkse, John Bush Poi, il corollario della vita, lesistenza dolceamara che toglie e concede a seconda degli umori, la separazione amichevole dal membro fondatore Reimut Von Bonn e la ricerca spasmodica di un sostituto che, dopo qualche tempo, si sublima in Martin Fischer. Professione: cantante.
Alla svolta della loro carriera, umana e professionale, i Long Distance Calling vengono risucchiati da un micidiale testacoda, figlio esclusivo di una madre prevedibile, la stanchezza, e di un padre irresponsabile, la testardaggine. Quel che ne vien fuori è limprobabile pasticcio di The Flood Inside, dove il diluvio ha infuriato a lungo e sè portato via tutti i migliori aspetti a più riprese apprezzati ed esaltati in Avoid The Light e nel successivo self titled. Non eravamo stati ipocriti allora e non lo saremo adesso: a saltare sul carrozzone del vincitore non ci stiamo, in primis per la mancanza oggettiva dello stesso carrozzone. I cinque di Münster tengono per unora insolitamente estenuante un piede in due scarpe: da una parte lapertura indiscriminata ad interi segmenti cantati, dallaltra la precauzione reazionaria di chi sa di attraversare un momento precario e, in virtù di questo, sceglie di limitare al minimo (male) i danni. Percentuali ridimensionate, dunque, per un gruppo che già si dava come immarcescibile cavallo di razza.
Il livello dei brani cantati è davvero molto basso, smarrito irresolubilmente tra vetuste epicità goth, romanticismo di terza mano, rimasugli di gentil metal teutonico (quello, per capirci, che trasporta lheavy al grado superiore darmonizzazione e già sembra prefigurare le sciagure del power). Welcome Change, in particolare, ruota attorno al binomio vocale tra Vincent Cavanagh degli Anathema e Petter Carlsen (anche qui: perché arruolare un cantante, per poi chiamarne altri due?) e sembra, né più né meno, una brutta copia dei Blind Guardian da arena. A fare il paragone, poi, con le già non eccelse strumentali, limbarazzo cresce. Pessimi, inesplicabili i toni AOR di Tell The End (con quella sfumatura da grandeur apocalittica che rende davvero complicato giungere alla fine) e il rifferama di The Man Within smussa ogni asperità per avanzare, vagamente Porcupine Tree, verso banalotti chorus hard rock. Brutture in grado di riabilitare persino la deficitaria Waves, cui non basta un riuscito segmento in pedal steel per risollevare la prevedibilità delle proprie evoluzioni, e che mantiene tuttavia lonestà sottotono del basso profilo.
Se la Caporetto non si completa, dunque, lo si deve soprattutto a qualche trucco di maniera (le sincopi di Nucleus e le improvvise fiondate zeppeliniane, con accordi sospesi e basso liquido a sciaguattare sul fondo, sono ormai un marchio di fabbrica conclamato) e a sporadici lampi di genio (il rivoltolamento improvviso di Ductus, ansimante post rock ritmato quasi new wave che si spezza sotto i guerreschi passi di danza di affilate chitarre balcaniche, un po444 dei Crippled Black Phoenix ed un poMladić dei GY!BE). Troppo poco per non temere che il Black Hole del discreto pezzo conclusivo si sia ingoiato unaltra speranza.
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