Mogwai
Hardcore Will Never Die, But You Will
Capolavori come Young Team non si scordano facilmente. Innazitutto, il secondo album dei Mogwai ha segnato un distacco netto e importante nel genere, una maestosa e inaspettata separazione delle acque: non più le fumosità jazz dei Bark Psychosis, l'indolenza slow-core dei capostipiti Slint, la fredda (e straordinaria) meticolosità aritmetica dei Tortoise; un team giovane per un post rock giovane, diremmo quasi vergine, che si fa esperto garante delle lezioni del passato e ne divulga il credo modificando il verbo. La ricerca di un pathos empatico e non cerebrale, la cura degli arrangiamenti, la scelta della tensione emotiva, dei primi (ma non in assoluto) climax strumentali, dell'assenza quasi completa della voce, sono solo alcune delle nuove coordinate sulle quali il gruppo scozzese ha deciso tanti anni fa, forse inconsciamente, di fare rotta.
Sarebbero potuti essere solo una meteora impazzita, un asteroide incandescente, tanto luminoso e bello quanto fuggevole ed effimero. Ma così non è stato: Come On Die Young e Mr. Beast stanno lì a dimostrare un'invidiabile longevità artistica, oltre che una notevole frequenza nelle uscite. Qualche buco nero sparso qua e là, vero, basti pensare a Rock Action, scialbo e privo d'anima, o al recente The Hawk Is Howling, che per la verità aveva diviso non poco pubblico e critica.
Ma ora... 2011! Quattordici anni ormai alle spalle: sarà davvero vita nuova con anno nuovo? Come sempre, la risposta si perde nel labirinto delle sottili sfumature e mutevoli percezioni di ciascuno. Nessun sì o no vigoroso, quindi, solo la possibilità di una spiegazione migliore. Hardcore Will Never Die, But You Will è un album sicuramente ben studiato e compatto, senza incertezze o stravolgimenti forzati. C'è la (stra)classica quiete-tempesta strumentale, eretta nel gioco di contrasti tra una chitarra appena pizzicata e un'altra appena distorta, oltre che da una tastiera in dolce crescendo con la batteria (White Noise), i primi germogli di un cambiamento verso lidi electro-synth, con un vocoder in pompa magna, che tanto ricorda l'ultima svolta dei 65daysofstatic (Mexican Grand Prix), così come un interessante connubio di sedimenti simil noise e alterazioni digitali (Rano Pano). In comodissima e scontantissima alternanza, possiamo trovare anche placide distensioni dreamy (Letters to the Metro") e improvvise accelerazioni math rock su pesanti riff di basso e chitarra (San Pedro); non male l'altro esperimento electro, tutto vocoder e saliscendi di chitarre e batteria (George Square Thatcher Death Party). Male, anzi malissimo, un paio di miscugli inconcludenti che non fanno altro che riscaldare per l'ennesima volta la cara-vecchia-odiata minestrina di un certo post rock ormai annacquato (Death Rays e How To Be A Werewolf). Qualche nota di merito alla traccia finale, in cui s'intrecciano buoni feedback stiracchiati delle chitarre, digressioni in controtempo della batteria e registrazioni in italiano di un mini racconto, quasi una versione latina di Fedro, intrusiva ed evitabile (You're Lionel Richie).
I conti di fine album misurano 53 minuti di musica... ma ahimè anche dell'altro: un lavoro senza infamia e senza lode e per questo, proprio perché va considerato il calibro del gruppo, doppiamente senza lode. Hardcore Will Never Die, But Post Rock Will verrebbe quindi da dire, e chissà che presto o tardi questa non diventi un'amara espressione d'augurio.
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