Rachel Grimes
Book of Leaves
Io amo questa donna. Seriamente, provo per lei e per la sua musica un sentimento profondo ed impetuoso. Magari privo di quelle audacie dolorose risvegliate da un ancheggiamento di Shakira o da uno sguardo accigliato di Cat Power, ma resta il fatto che Rachel Grimes ha sempre suscitato in me un ascendente speciale. L’ascolto di dischi come “Handwriting” o “Music for Egon Schiele”, pubblicati rispettivamente nel 1995 e nel 1996 dai Rachel’s, era e rimane un’esperienza fondamentale per comprendere (e magari apprezzare) non solo le derive “cameristiche” del post-rock ma anche tutto quel filone “contemporary classical” che ha recentemente trovato ottimi riscontri di pubblico e critica (Balmhorea, Olafur Arnalds, Johànn Johànnsson …).
“Book of leaves (for piano solo)” esplicita fin dal titolo (e dal sottotitolo) le intenzioni della sua autrice. Rachel è rimasta sola. Via viole, violini e violoncelli. Via le chitarre di Jason Noble (anche con Rodan, Shipping News e chissà cos’altro). E via anche quegli arrangiamenti orchestrali che donavano dinamismo e grazia solenne alle composizioni targate Rachel’s. Dopo sei anni di assenza Rachel si ripresenta senza genitivo sassone e sfoglia con noi un album di 14 composizioni piccole e frangibili proprio come foglie d’autunno.
L’abilità di Rachel Grimes nel creare atmosfere tese e cariche di lirismo è immutata, e riesce ancora ad esprimersi su ottimi livelli nonostante l’intera opera si presenti in una forma così introversa ed individualista: pezzi come “Every morning” e “On the morrow”, ad esempio, sembrano bozze mai sviluppate del primo periodo Rachel’s, altrove si avverte il definivo distacco dal modello “post-rock” per abbracciare concezioni ambient nelle quali i momenti di silenzio assumono la stessa importanza data alle note (“The Corner Room”, “Far Light”). Come già avvenuto nell’ultimo album a nome Rachel’s (“Systems/layers” – 2003), al suono del pianoforte si aggiungono alcuni fields recordings (“She wash here”, “Every morning birds”).
Rachel è uscita dalla cameretta, ha piazzato il suo pianoforte in mezzo ad un prato, e adesso suona in simbiosi con la natura e con i suoi umori. Se i suoi ex-compagni (Jason Noble, Marnie Christensen, Christian Fredrickson … ) decidessero di raggiungerla per gratificare di sfumature e complessità i piano-drones di “Mossgroove” o la cascata di note Tiersen-iana (o Mertens-iana) di “My dear companion”, giuro che faccio la valigia e vado lì.
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