Red Sparowes
The Fear Is Excruciating, But Therein Lies The Answer
Crogiolandosi nel cronico sguazzare delle loro incertezze post-esistenziali (e, d’altro canto, figli della generazione X lo erano anche loro, seppur con modalità e vie d’uscita differenti), i primi post rockers – pionieri? folli? sciagurati? – avranno certamente riso sotto i baffi al sentire la critica specializzata d’allora che parlava del loro come del rock of the future. Anzi, addirittura di più: oltre il rock stesso. Più sobriamente, e con vent’anni abbondanti di scorrerie sulle spalle in tal senso, possiamo ora guardare a quella stessa corrente musicale, dalle coordinate modernizzate quel minimo che basta a sopravvivere, con lo stesso termine di un tempo, ma riletto in differente significato. Ovvero: non più il rock del futuro, ma il rock che prevede la propria forma. Spaventando tutti anche solo con la forza retrograda di un titolo.
Sulla nostra pelle brucia ancora l’ingiustizia dell’ultimo disco dei Pelican, un contraccettivo (im)mobile in onore del vizio, sempre più diffuso, di sedersi sugli allori e guardare il mondo dal basso al basso, con una prospettiva stantia e muffita, quand’ecco arrivare il terzo full length dei Red Sparowes. Manco a farlo apposta, la paura è straziante, ma al suo interno giace la risposta. Ogni uscita che premetta un post- dinanzi ai suoi connotati suscita, ormai, sempre la stessa, timorosa reazione. Aver scritto un album come “At The Soundless Dawn”, nel 2005, sublime esempio di come la musica strumentale possa interloquire, fluentemente, senza bisogno di parole, tra derive cosmiche e laceranti sassate metalliche, amplifica maggiormente, se possibile, il rischio di delusione. Dalle credenziali in gioco, d’altronde, ci si aspetterebbe sempre il meglio, in ogni occasione: più che un semplice progetto parallelo degli Isis, i Red Sparowes sono stati tra i pochissimi, nell’ultimo decennio, a dare qualcosa di vero, di proprio e di originale all’intera etichetta.
La partenza è, eufemisticamente, stentata. Mutili del nome principale, un Josh Graham legato in modo viscerale alla sua nuova creatura A Storm Of Light (rispetto alla quale è mutuata l’uscita, relativa ad una questione, per sua stessa ammissione, di attitudine sonora troppo morbida), la nuova formazione annaspa nel ciclopico tentativo di far mente locale e riprendere slancio donde si erano conclusi i panegirici di “Every Red Heart Shines Towards The Red Sun”. I primi ritagli di gloria, però, sono bruscamente risucchiati dal gorgo della sterilità. Si può pensare, magari, di tralasciare una pizzicata “Truths Arise” dai lasciti vagamente orchestrali, ma sia “In Illusions Of Order”, strascicato dipanarsi slintiano con rumoroso crepitare elettrico in coda, che “A Hail Of Bombs”, compresso – non complesso – corteggiamento verso il lato più damerino e glorioso della timbrica chitarristica virata post-metal possono creare qualche problema. E quindi no, nessuno sbandamento sull’orizzonte dei pellicani: la questione è più sottile ed indefinita. Non brutte canzoni, né giri a vuoto (mi chiedo, in sostanza, se gente come questa possa mai produrre davvero, fino in fondo, qualcosa di inaccettabile) ma un rapido, capillare livellamento ad una preoccupante medietà. Il terrore dei secchioni: finire nel blocco di ignavi. Sinora la fotografia è questa.
Eppure due sono i sentimenti del disco, due le proposizioni che lo compongono: due, ebbene sì, i livelli di lettura a cui viene radiografato. Abbiamo parlato di una paura straziante, giusto? La domanda non è retorica: al suo interno giace la risposta. La giostra gira dall’altra parte con “Giving Birth To Imagined Saviors”, che infila una struggente pulsione da parata, come il numero dei battiti cardiaci di chi si assuefa al lavoro dei Sigur Rós, tra due zanzariere di aggressive dissonanze. La meravigliosa “A Swarm”, dai tostati effluvi blues, ci ricorda perché i Red Sparowes abbiano deciso di incorporare da sempre, nella strumentazione, una steel pedal guitar: uno slide dopo l’altro, alla ricerca della deflagrazione definitiva da portare con sé, che alla fine arriva, con cacofonia liberatoria, nei densi tre minuti di “In Every Mind”.
Quando le cose più belle sono anche quelle più semplici.
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