Sigur Rós
Kveikur
E passato appena un anno dalluscita di Valtari e i Sigur Rós ci riprovano. Li avevamo lasciati nel tentativo di dare un senso a un album altrimenti non propriamente entusiasmante con il Valtari Mystery Film Experiment, il pregevole esperimento di mecenatismo multimediale applicato allarte dei video per la musica (sono arrivato a contare 16 video ufficiali per i brani dallalbum in questione) e li ritroviamo oggi con una nuova formazione a 3 (il tastierista Kjartan Kjarri Sveinsson ha preso altre strade), nuova etichetta (da una major, la Parlophone, ad una etichetta indipendente, la XL) e un nuovo album che segna, comunque la pensiate, un nuovo inizio.
La situazione stava per complicarsi. La bolla emotiva fatta di ammirazione e autosuggestione costruita attorno al gruppo più famoso dIslanda stava forse per scoppiare in modo irreversibile. I fan della prima ora, letteralmente travolti dal fascino e dalla potenza delle iniziali, dirompenti, produzioni targate Sigur Rós stavano per abbandonare definitivamente il cerchio magico che dalle glaciali terre artiche era arrivato ad unire in un unico abbraccio persone e personalità dai più disparati angoli del pianeta, tanto nei salotti buoni quanto nelle bettole fatiscenti.
Il fascino ed il magnetismo del gruppo erano dunque nella fase calante della loro parabola e le strade da intraprendere erano a questo punto solo due. Continuare caparbiamente sulla stessa onda emotiva di Valtari, radunando ai concerti orde di invasati di bianco vestiti vaneggianti catartiche esperienze extrasensoriali e la pace nel mondo, oppure provare nuovamente ad imbracciare gli strumenti nel tentativo di trasmettere energia che sporca, perché per quanto post-uno possa essere, il rock deve pur sempre risvegliare una parte dura e maledetta.
La scelta, sebbene non netta, è stata nella seconda via e Kveikur è effettivamente lalbum più duro o molto banalmente rock della carriera dei Sigur Rós. Non si può certo dire che sia un album rivoluzionario, né nei confronti del rock né tantomeno nei confronti del loro particolare modo di essere artisti nel mondo della musica. Niente lascia gridare al miracolo e nessuno credo mai arriverà a dire che lalbum sia un capolavoro ma è innegabile che finalmente la commistione tra algide atmosfere surreali (date ora principalmente dalla inconfondibile voce di Jónsi e dal ritmo, quasi sempre lento e marziale) e suoni fisici, palpabili e accattivanti, faccia riscoprire interesse per la loro proposta musicale. La prima testimonianza di questo cambiamento è la traccia dapertura nonché primo singolo lanciato tre mesi prima delluscita ufficiale del disco. Brennisteinn è una cavalcata poderosa di quasi otto minuti introdotta da strepitii di distorsioni di basso spernacchiante e chitarra-cartavetro guidati dall'esplosivo timpano/cassa della batteria che dà la sveglia al beato sonno di Valtari. Verso la metà del brano latmosfera si fa nuovamente silenziosa e purificatrice, ma è solo un sorbetto per il cambio di ritmo che accelera verso orizzonti luminosi e finalmente freschi come un sorriso e non più freddi come la noia. Un po come quando la domenica mattina ti entrava in stanza tua madre per svegliarti, bruscamente, dallinfinita dormita del sabato notte adoperando il rumore e la luce del (pieno) giorno. Tapparella.
Laltro singolo dellalbum, anchesso uscito prima del rilascio ufficiale dellalbum è Isjaki. E qui i tre islandesi vanno addirittura oltre proponendo quello che potrebbe benissimo essere scambiato per uno dei pezzi più tristi dei Foals, se solo non fosse uno dei pezzi più solari dei Sigur Rós, e ciò a dispetto del video, che di solare ha ben poco. Un tuffo in sonorità dal forte accento pop, cosa a dire il vero non del tutto nuova nella loro carriera se avete ancora nelle orecchie il ronzio della leggerezza di Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust. Nello stesso filone concettuale rientrano pure Stormur e Rafstraumur, che se, mutatis mutandis, lavessero fatte i Muse, nessuno se ne sarebbe accorto.
Se però i Sigur Rós che vi piacciono sono quelli di Valtari, la qual cosa non può essere categoricamente esclusa, troverete in Hrafntinna e soprattutto nella conclusiva Var due momenti di struggente e malinconico trasporto che, se inseriti in contesti come questo Kveikur, dove i viaggi dei tre hanno un inizio ma per fortuna pure una fine, fanno proprio una bella figura.
Kveikur, la title track, è una marcia industrial dalla velleità epica e dal rumoreggiamento ipnotico. È un pezzo sicuramente molto efficace, che sarà perfetto quando sarà chiamato a radunare le ultime forze delle maestranze sul palcoscenico mentre chiudono uno dei concerti della sterminata lista di date in Europa e Americhe, da poco annunciate, per la prossima estate e non solo. Nessuno infatti mi toglierà dalla testa che questalbum sia un prodotto fatto (apposta) per richiamare le masse ai concerti del World Tour 2013, fatto per risvegliare bollori sopiti, fatto per ciurlare in territori di sicuro e più immediato appeal. Fatto per liberare unenergia che cè sempre stata nei Sigur Rós ma che il ruolo di gruppo culto (visitare la loro pagina Facebook per saggiare il livello estremo di fanatismo dei followers), con le annesse auto-inibizioni per quello che si sa fare meglio accantonato per la volontà di brancolare solitari nelliperuranio della musica, ha spesso smorzato più del dovuto.
Una furbata insomma, ma di buon livello. E se chiedere è ancora lecito, chiediamo di continuare in questa direzione. Se i Sigur Rós saranno dei cortesi galantuomini, solo il prossimo e a questo punto atteso capitolo potrà dirlo.
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