Slint
Spiderland
Uno degli album più influenti e seminali di tutto il rock nasce nel 1991 a Louisville, città caposcuola del cosiddetto genere post-rock e patria di artisti e chitarristi che si riveleranno imprendiscibili per le sorti future della musica contemporanea, quali Brian McMahan,David Grubbs e, soprattutto, David Pajo, futuro membro di altre storiche formazioni come Tortoise o For Carnation.
Nasce per effetto di un collettivo, gli Slint, che annovera due dei geniacci sopraccitati nelle sue file (McMahan e Pajo), più il bassista Ethan Buckler e il batterista Britt Walford, e che due anni prima ha esordito con un autentico ufo musicale dal titolo "Tweez", embrione della loro futura arte.
La loro è una musica del tutto particolare, eclettismo ragionato e maturo che fa tesoro delle nuove esperienze post-hardcore (catarsi e purificazione nella tensione tra rabbia e quiete) e le contamina con una certa tradizione folk (leggi il mantra algido e distaccato di John Fahey) e progressive, per latteggiamento di ricerca di sempre nuove soluzioni. Il tutto condito da minimalismo rileyano e da spruzzate di Eric Dolphy e Ornette Coleman.
Inutile dire che stiamo parlando di una vera e propria pietra miliare, un disco senza il quale molto di quello che oggi passa sotto le nostre orecchie non esisterebbe, e in definitiva un disco che ogni amante della musica vera e buona non può ignorare, al punto che sembra quasi inadatto presentare in questa maniera un pezzo da novanta del genere in un sito di esperti della storia della musica.
Ma tant'è: i fatti mi dicono che "Spiderland" è assente dal database e così, perfettamente conscio di star per compiere qualcosa di equivalente al recensire un piatto di spaghetti all'amatriciana per una rivista di cucina, mi accingo a colmare questa spaventosa lacuna con sentita umiltà.
Tre accordi...sono solo tre accordi, ma - diavolo! - i tre accordi più influenti degli anni novanta, quelli che aprono la prima traccia, "Breadcrumb Trail". Tre accordi, si diceva, seguiti da un delicato arpeggio e dall'introduzione timida della batteria in controtempo, schema ripetuto più volte prima che entri in scena il recitato freddo e al tempo stesso apatico del cantante, che accompagna la prima parte del brano con un deliquo che di passionale non ha nulla, espressione marcata della loro filosofia musicale improntata sullo svuotamento totale di qualsiasi emozione, zenit assoluto dello slowcore più lento e cerebrale. Ben presto l'atmosfera e la ritmica cambiano e il tutto si tramuta in una ballata dissonante dal tono insieme dolce e nervoso, prima che la voce, ora irrequieta e disperata, ceda il passo ad una cavalcata chitarristica frenetica dal sapore postcore.
Sì, perchè la musica degli Slint non fa che aggiornare la lezione degli Squirrel Bait e dei Fugazi (influenze innegabii per il gruppo), incorporando però in essa spinte, come si diceva in apertura, dal sapore progressivo e dal sapore folk. Quello che si potrebbe definire un bel calderone di generi, insomma, non fosse che agli Slint poco importa mostrare la loro perizia; ciò che i quattro vogliono comunicare è sostanzialmente un atteggiamento che nel campo dellarte potrebbe avere un corrispettivo nella corrente cubista: la musica sembra continuamente in fieri, osservata da ogni angolazione possibile e immaginibile, ma, alla fine, incapace di trovare una propria identità proprio in quanto le possiede tutte. Messaggio chiaramente improntato a testimoniare la morte del rock, quindi? Non diremmo proprio, visto che di rock il quartetto, anche nelle tracce successive, ne macina eccome!
Lincedere tintinnante e ossessivo di Nosferatu Man, seconda traccia, sfuma in un'altra altalena di contrasti emozionali, a dare senso ad un altro pezzo totalmente decostruito, in cui leterna stasi provocata ancora una volta da controtempi batteristici, ritmiche fratturate e dissonanze chitarristiche si dissolve in uno sconclusionato rincorrersi degli strumenti senza meta, che riconduce il tutto in territori free-jazz.
Don, Aman è lesaperazione di questa filosofia: un brano senza regole, senza schemi, del tutto a-concettuale, in cui larpeggio continuo e insistito sostiene un parlato ancor più smarrito, lequivalente in musica di un viandante nel deserto del Sahara. Dimprovviso, lennesimo mutamento in divenire e il timido scampanellio portante tutto il pezzo si fa ansioso, in un crescendo coadiuvato da un riff elettrico minimale e distorto, che però ha il compito di riportare ogni cosa al principio, ovvero alla pacatezza e alla quiete senza meta.
La seconda parte è aperta da una delle più belle canzoni del post-rock, la sofferta ballata Washer, con ogni probabilità lapice del gruppo, che tradisce un sincero talento da songwriter dei quattro.
Il romanticismo apparente del brano è stemperato da subito da una serie di contrappunti minimali e digressioni caotiche che lo accompagnano fino alla conclusione, ma in sostanza si tratta dellepisodio più regolare del disco.
For Dinner fa capire allascoltatore quanto McMahan e soci abbiano mangiato pane e Can per colazione, non si spiegherebbero altrimenti i muri sonori di marca jazzistica ed ermetica, lincedere sghembo e tortuoso, in un brano cupo e tormentato come pochi.
Lavventura si chiude con Good Morning Captain, ennesimo esempio della loro ricerca senza destinazione, alternarsi di irrequietezza e placidità in una tensione continua fra opposti, il voler esprimere e lessere consci dellimpossibilità di esprimere al tempo stesso, tutto questo in un disco che a distanza di sedici anni continua ad incantare e a lasciare colpiti per la sua incredibile freschezza e per leterna attualità del suo messaggio.
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