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R Recensione

6,5/10

Teho Teardo

Music For Wilder Mann

Teho Teardo è un compositore/sperimentatore che proprio non ama perdere tempo nel compiacersi dei tanti e continui consensi raccolti. Basterebbe scorrere l’impressionante lista di colonne sonore per il cinema italiano più “cult” – o anche semplicemente “alt-chic” – rappresentato da, tanto per tirare in ballo qualche nome, Guido Chiesa, Andrea Molaioli, Claudio Cupellini, Daniele Vicari (l’eco “Diaz” non si è ancora smorzato), Paolo Sorrentino. Lui va per la sua strada e la sua musica con lui: ovunque conduca la sua idea di “rarefazione risonante”, lì si aprono le strade della sua ricerca percettiva. Perché Teardo anziché prestare attenzione strettamente alla composizione, tende ad inseguire una ambientazione per i sensi, per l’anima. E così, indipendentemente che punti alla creazione di musiche per film o destinate ad altre arti, ciò che ne deriva è qualcosa comunque tale da regalare all’ascoltatore quell’impressione di alterazione della realtà circostante, nell’istante esatto nel quale le sue note iniziano a prendere d’assedio le facoltà uditive.

Nello specifico “Music For Wilder Mann” è un lavoro scritto per gli scatti di Charkes Fréger (confluiti nel libro “Wilder Mann, La Figura dell’Uomo Selvaggio”, Peliti Associati, 2012) il cui tema è  quello dell’individuazione degli elementi primordiali che consentono a determinati uomini, la cui aspirazione è di rinsaldare l’equilibrio con la propria natura istintuale, intrinseca del rapporto con i luoghi non domati dalla cosiddetta “civiltà”, riconsegnandosi ad una essenza “selvaggia” (che non vuol dire arretrata, aggressiva), originaria non tanto di un Eden perduto, quanto piuttosto di un Eden che non era perduto, ma che era creduto tale, sotto il peso della sonnolenta macchina della modernità a tutti i costi. Sembra di tornare agli studi degli antropologi sugli sciamani: personaggi “in bilico” fra due mondi, mediatori fra la tribù e i “rappresentanti metafisici” del mondo della foresta, della sfera ancestrale, dell’intangibile. E in quanto mediatori, isolati, appartati dal contesto sociale della tribù per la quale si rendono interlocutori. La metamorfosi in un animale è l’istituto simbolico che consente allo sciamano di affermare la propria alterità, la propria appartenenza alla natura più incontrollata e temuta.

Potrà allora sembrare paradossale che il “tramite” prescelto nell'album per dar voce a questa metamorfosi sia una musica che si rivela attraverso l’elettronica (e dunque attraverso la modernità): ma è proprio attraverso la sublimazione della propria antitesi che si giunge alfine a questa dimensione “minima” dell’esistenza che corrisponde a quel briciolo di “umanità incorrotta” il cui cordone ombelicale non è stato reciso dal suo “luogo d’origine”.

Più che nelle sue “soundtracks”, Teho Teardo tende gli esili fili delle composizioni come corde di violino, concentrandosi molto su loop armonici poco propensi ad “aprirsi” e a generare melodie. Tutto è liquido (impregnante), tutto è immanente: il contribuito degli archi del fido Balanescu Quartet e dei violoncelli di Martina Bertoni (collaboratrice storica di Teardo), di Julia Kent (“nuova” compagna di viaggio già con Antony and The Johnsons) e di Erik Friedlander (Masada/John Zorn), stavolta prendono parte ad un gioco che non ha la solita strategia volta ad alternare accumulazioni emozionali e liberazioni sensoriali. Qui piuttosto il flusso sonoro viene ricondotto al terreno dell’inquietudine, anzi dell’irrequietezza. Probabilmente con il fine di sospingere quanti in ascolto a “rendersi disponibili” a stimoli in grado di palesare i vincoli nei quali l’intuito primigenio rischia di rimanere imbrigliato. Teardo continua a rivelarsi un vero “mastro manipolatore”, destreggiandosi alle chitarre, al basso, al piano, ai synth, alle programmazioni elettroniche.

Stavolta tuttavia si tende a non rimanere incantanti in modo subitaneo da una musica così esigente e così, intrinsecamente, poco magnanima ad offrire di sé una visione più ariosa, più compenetrante. Si capisce che il fine, in “Music For Wilder Mann”, è drasticamente diverso. E il risultato anziché avere una valenza liberatoria, in questa circostanza, appare in qualche misura, emotivamente concentrico, animato da una forza centripeta che non consente vie di fuga e nega un respiro più ampio.

Sono sempre rinvenibili le location offerte da un certo post-rock più ambientale. Tornano alla mente, i Mogwai più minimali (in particolare il lungo brano sul bonus cd di “Hardcore Will Never Die, But You Will”), i The Evpatoria Report, come anche le composizioni meno sinfoniche di Clint Mansell o Craig Armstrong. Sullo sfondo sempre i grandi maestri Steve Reich e Philip Glass.

Da Teardo si attende ancora un lavoro non “scaturito” dalle suggestioni fornite da altre forme d’arte, ma davvero veicolo solo di una ispirazione musicale, sviscerata fino in fondo, senza indugiare in punta di piedi, capace di produrre silenzio, ma anche rumore.

Probabilmente il progetto che vedrà la luce a breve e sviluppato a quattro mani con Blixa Bargeld, sviluppato sull’asse Roma-Berlino, riuscirà pienamente a formulare una musica corporea, urgente, contundente. Vista la controparte scelta è lecito attendersi che sarà proprio così.

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