The Pirate Ship Quintet
Rope For No-Hopers
La rivoluzione, quella intellettuale, di testa più che di pancia, fa paura. Ha sempre fatto paura. Farà paura, anche, in futuro. Perché giustifica, con metodo e rigore, ciò che rimane per lunghi tratti inesprimibile, compresso nell’istante di un gesto, di un’azione, liberatoria, catartica. Il mitra di Demetrio Stratos, intellettuale tra gli intellettuali, che sull’intelligencija da salotto ciarliero ci scatarrava su, era – non a caso – un contrabbasso che sparava sulla faccia, un’arma non-violenta (non nel senso classico, fisico, sensibile del termine) dalla gittata inesauribile e dalla potenza deflagrante. Se fare musica ha senso ulteriore, extra se non addirittura metartistico, quello è politico: la capacità, anzi, la volontà di modificare una situazione, un paesaggio, un ambiente anche solo percependo vibrazioni, sconquassando molecole, imprimendo a fondo un sotteso metaforico alla propria, onesta azione artigianale, coniugando sapere materiale e cibo cerebrale.
Detta tra noi, “Rope For No-Hopers” è un disco, così, estremamente politico. Sottolineo, ancora una volta: estremamente. Politica per chi non cerca proclami da due soldi, né simbolismi inafferrabili. Politica elegante, sinuosa, ma – al tempo stesso – concreta, spietata, rabbiosa. Affermazione ardita, iperbolica, probabilmente, tanto più che non riuscirei a corroborarla con nessun esempio tangibile e specifico. Si tratta, avete presente?, di una sensazione generale, di un non so che. Dell’accostamento di determinati suoni in determinati contesti, dei tempi dispari performati con la facilità dello standard occidentale, di un arrangiamento, spalmato su tre note, che le fa diventare una, poi dieci, poi mille, poi nessuna, quasi nello stesso istante e, questo sì, dalla stessa prospettiva. Già, “Rope For No-Hopers” è un disco politico, e sul seghettato passo di danza di “Horse Manifesto” i plumbei nuvoloni del post rock umorale marca Denovali cominciano ad addensarsi in una cascata di elettricità, sospinta da imponenti archi esistenziali (dove siete finiti, vecchi amati Crippled Black Phoenix?), poliritmie feroci e, sopra ogni cosa, un urlo, devastante, sordo, disperato. Mugghia qualcosa, ma non si sa cosa. Il vuoto inghiotte l’interlocuzione. Attorno la bufera, il temporale. Schiocca un tuono: è un violoncello che divaga, lancia stoccate, si ritira fluttuando. Biancheggia un lampo: sono i riverberi di una chitarra che torna all’assalto. Poi, di nuovo, la tempesta. L’emozione libera di esprimersi – in aperta, sfrontata antitesi alla sterilità interiore del potere –, l’archetto stretto nel pugno, una canzone che esplode come fosse un traditional, inchiodato nella notte dei tempi.
The Pirate Ship Quintet, anche se sono in sette e non in cinque, è un nome che lascia qualcosa dentro, come chi estingue un incendio ma si dimentica, (mal)auguratamente, un tizzone acceso. E non perché sembrino la sintesi perfetta degli ultimi Earth e dei King Crimson jazz rock, o i Matching Mole stuprati dal post-core atmosferico (vorrei tanto dire emo, ma non ci riesco), o i Godspeed You! Black Emperor a braccetto coi Tortoise anarchici ma non algidi, progressivi ma non vitrei, o ancora i Dirty Three che jammano coi Rachel’s e coi Cul De Sac e con chi volete voi. The Pirate Ship Quintet lascia qualcosa perché dice qualcosa. Lo dice in ascessi noise che si pascono in liquidi carillon per chitarra e complesso d’archi (“Dennis Many Times”, dove il crescendo ansiogeno del finale si acuisce in una palpitante, jazzistica saturazione sonora). Lo dice lungo un tunnel di tormentata passionalità, scaglionato in 7/8 sulle orme di un tango noir dilaniato da raffinati (affilati?) coltelli chitarristici, come nella complessa “You’re Next”. Il grido si fa carne, e rimbomba ancora in “That Girl I Used To Live In”, se la furia gelida dei Neurosis avesse mai conosciuto la strutturazione su più livelli del jazz operistico, finendo per svoltare nel baratro, guardare in fondo all’abisso e scorgervi nient’altro che l’animo dell’uomo, nella ripetizione circolare, endtime ballad spuria, che chiude il sipario su “Doldrums”.
“Rope For No-Hopers” costringe a rendere conto dei propri sentimenti sopiti: qui, e nell’infinita gamma di conseguenze che se ne traggono, giace il suo più profondo, nobile senso politico. Un disco che rimarrà a lungo.
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