The Unwinding Hours
The Unwinding Hours
Per capire chi sono The Unwinding Hours bisogna partire da chi sono stati gli Aereogramme, i quali sono stati più cose. In sintesi: una band vagante tra post-rock di chiaro stampo scozzese e influssi più ruvidi se non decisamente heavy (vd. lo split del 2006 con gli Isis), approdata alla fine della sua quasi decennale esperienza a un indie-rock languido e ancora colmo di stratificazioni sonore in stile post-, ma sostanzialmente pacificato con uno stile radiofonico-sentimentale (“My Heart Has A Wish That You Would Not Go”, 2007, alternava buoni colpi a mellifluità un po’ stucchevoli). Il leader Craig B e Iain Cook, chiuso lo stato sociale Aereogramme, hanno augurato nel 2009 il progetto The Unwinding Hours. ‘Different names for the same thing’, chioserebbe Ben Gibbard.
Il suono di questo primo lavoro, difatti, non si discosta affatto da dove avevamo lasciato i due, mentre si allontana sempre più dai primi lavori firmati Aereogramme: tracce residuali di crescendo à la Mogwai (“Knut”, bella pur nella sua prevedibilità) e di memorie noisy si insinuano in modo ormai saltuario in un impasto di educato rock crepuscolare, colmo di arpeggi dolci e languori sfatti. Alcuni pezzi giustappongono i due stili in modo evidente: “There Are Worse Things Than Being Alone” si divide tra una prima parte di lentissimi sussurri acustici e una seconda di wall of sound chitarristico tanto imponente quanto inefficace.
La voce gentile di Craig B funziona meglio nelle ballate virate in direzione folk (“Solstice”, da cantautorato americano, Tom Brosseau e dintorni) che dove si calcano i toni e la batteria picchia colpi volutamente grezzi (“Peaceful Liquid Shell”). Alla grazia delicata di torch songs troppo telefonate (“Little One”) si affianca, più si penetra nel disco, un mood nuvoloso (“Child”, con un basso che entra corposissimo a metà pezzo, riscattandolo), ma le melodie, né in un caso né nell’altro, riescono a lasciare il segno. Per avvicinarsi alla zuccherosità iper-sensibile e certamente sincera di alcuni pezzi (“Traces”) tocca davvero molto cuore, ma molto meno orecchio: ampie zone del disco suonano sorpassate, troppo debitrici di una maniera che ha inevitabilmente fatto il suo tempo. Così, ad esempio, la progressione sussurri > rumore di “The Final Hour”, scandita da un ritmo volutamente lentissimo, quasi funereo, si sarebbe potuta prevedere solo dal titolo.
Dal disco si finisce per togliere qualche bel momento (“Tightrope”), ma ciò che più se ne ricava è che il buon Craig B, mentre le ore si sdipanano, sta lentamente scivolando fuori dal quadro della musica che conta.
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