Thee Silver Mt. Zion Memorial Orchestra & Tra-La-La Band
13 Blues For Thirteen Moons
Cosa ne è stato del post-rock? A un ventennio dall’esordio degli Slint è lecito provare a domandarsi che ne è stato di quel movimento eterogeneo che è stato una delle correnti sotterranee più influenti degli anni ’90 e dei primi ’00. In effetti il post-rock, da sempre oggetto misterioso, sembra essersi spento silenziosamente nella sua carica innovatrice, quasi affossato dall’affermarsi di un modello canonizzato (e si potrebbe aggiungere con un velo di malizia: stereotipato) portato tuttora avanti da gruppi come Explosions in the Sky, Sigur Ros, Dirty Three e Tortoise, i quali pur mantenendo una produzione dignitosa non sembrano in grado di uscire dalle convenzioni da loro stessi create, accompagnandosi in un lento logorio con dischi sempre più scontati e banali.
Non tutti però hanno sotterrato le armi senza lottare: i Mogwai hanno mostrato un’evoluzione interessante e anche i nostrani Giardini di Mirò hanno saldato efficacemente l’esperienza post-rock con un indie-rock di notevole spessore. A tenere alta la bandiera del movimento ci ha pensato però soprattutto Efrim Menuck, fondatore dei Godspeed You Black Emperor e successivamente del side-project A Silver Mt. Zion, inizialmente (He Has Left Us Alone But Shafts Of Light Sometimes Grace The Corner Of Our Rooms, 2000) un trio comprendente il violinista Sophie Trudeau e il bassista Thierry Amar (entrambi già militanti nei Godspeed) e successivamente (da Born Into Trouble As Sparks Fly Upward, 2001) allargato a sei membri e ribattezzato The Silver Mt. Zion Memorial Orchestra & Tra-la-la Band. Se i Godspeed dopo Yanqui UXO (2002) vengono temporaneamente congelati l’esperienza Silver Mt. Zion diventa ben presto il principale oggetto di ricerca: con This is our punk-rock (2003) e Horses in the sky (2005) vengono ridefiniti i confini del post-rock modellandoli con un alt-folk in cui sempre maggiore importanza acquisisce il cantato evocativo di Menuck.
Ora esce 13 blues for thirteen moons, un disco che merita un’analisi molto approfondita: si parte e si nota subito il numero anomalo ed esorbitante di sedici canzoni. In realtà le prime dodici sono scampoli di pochi secondi che introducono nel complesso un minuto di stridente feedback. Dopo questo inizio tra il geniale e l’irriverente si giunge alle quattro tracce, tutte della durata approssimativa di un quarto d’ora. Si parte con 1,000,000 died to make this sound, dai sapori krauti e velvettiani: inizia quasi come una omelia religiosa in una quiete sacra da cui si fa largo il cantato ammaliante e mistico di Menuck. Di colpo il brano esplode: compare una chitarra krauta circolare che alterna escursioni acide di spessore con un wall of sound granitico mentre una solida viola alla John Cale tiene il tempo. Si affiancano altre chitarre. Nel delirio si coglie la razionalità di una psichedelia ben calibrata sullo stile forsennato degli Amon Duul 2, lontana discendente anche degli antenati Velvet Underground.
1,000,000 died to make this sound è un brano maestoso, un fiume in piena che sfrutta la lezione del post-rock con una lenta ascesa epica in cui le improvvisazioni su un tema musicale limitato diventano ordinarie. La struttura generale è circolare, in un carosello dal quale schizzano mille scheggie di fuoco impazzite. Il pezzo, di un impatto degno dei tardi Oneida, si chiude come era iniziato, con un ritorno a quel tono da omelia sacra.
Dopo un capolavoro del genere si potrebbe avere la voglia di chiudere qua l’ascolto, consci del fatto che il meglio sia già stato dato. E invece si va avanti e si piomba nel brano omonimo 13 blues for thirteen moons: l’orizzonte musicale si sposta in avanti di qualche decade abbandonando le lande tedesche per giungere alla neo-psichedelia che si pone tra Dead Meadow e Warlocks, nonostante la dissonanza di un cantato un pò storto. D’altronde il muro di feedback è inconfondibile, così come il ritmo che si assesta su un motivo blues steso tra panni di psichedelia soft dilatati fino all’impetuoso wall of sound finale.
Black waters blowed, engine broke blues è invece un folk psichedelico e instabile, colto da sfuriate di una batteria heavy-jazz (si sente l’ingresso del nuovo Eric Craven, ex Hanged-Up) calata in atmosfere tortuose, rese tali da un violento intreccio di violini con chitarre noise, in un mix che sembra far incontrare Dirty Three e Velvet Underground. A metà pezzo il feedback alza l’intensità in maniera emotiva e sonora con una cavalcata neo-psichedelica poderosa, prima di ritornare su ritmi più morbidi; Menuck ritrova un cantato melodico classico che riparte da un soffice tappeto di tastiere e si ritrova presto di nuovo accompagnato da chitarre distorte, violini drammatici e una violenta batteria.
Blindblindblind inizia in sordina su toni cantautoriali: il brano è il più scarno dei quattro con un folk d’autore steso tra scorci malinconici e strazianti, meritevole di un cantato volutamente sgraziato che emoziona per intensità e passione. Le variazioni di ritmo sono stavolta tenute al minimo fino all’inevitabile ultima ondata, ennesimo inarrestabile fragore che chiude degnamente un disco incredibile. Tornando al discorso dell’introduzione si può allora affermare che il progetto Thee Silver Mt. Zion Memorial Orchestra & Tra-La-La Band sia riuscito di spostare ulteriormente i confini del post-rock, immergendo il genere nel mondo della psichedelia, sia essa moderna o classica. 13 blues for thirteen moons si pone allora come uno splendido anello di congiunzione tra due mondi mai del tutto separati ma mai così ben incastrati. Folk e psichedelia vengono modellate su schemi post-rock in una maniera che potrebbe quasi rievocare un certo prog di una volta o una certa neo-psichedelia di oggi. In realtà l’impressione è proprio quella di avere tra le mani un disco unico.
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