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R Recensione

7/10

These Monsters

Call Me Dragon

Vi è mai capitato? A me sì, un sacco di volte. Sarà che non ho ancora imparato a convivere col mio alter ego recensore, ma alla fine di un qualsivoglia ascolto scatta, spontanea ieri come allora, la domanda scontatissima e fatidica: “Cosa mi ha colpito di più?”. I dischi, per il solo fatto di pensare di giudicarli e criticarli, vanno solo che ascoltati, con pazienza e attenzione. Il fatto che, ormai, sempre più raramente si riesce a dare una risposta di un certo calibro al quesito di partenza, apre due scenari, ugualmente validi: la pochezza delle nuove uscite, o la disattenzione dello scribacchino. Mi rifiuto di credere sia all’una, per fiducia cieca ed irremovibile, sia all’altra, per orgoglio e stupidità personale. Così, quando si becca un appiglio, anche fortunosamente, lo si sbandiera il più possibile come prova inoppugnabile della Verità.  

Il nome dei These Monsters, sono il primo a dirlo, è anonimo come e più degli altri. Dalla copertina, dalla tracklist, dalle presentazioni, tutto lascia presagire il grigiore di un gruppo esordiente già costretto all’ordinanza. Roba da sentire, svogliatamente, tra un Frappuccino e una sfogliata a Blow Up. Passano via, per la prima volta, i quattro minuti e mezzo di “Call Me Dragon”, e ci si rende conto che questi inglesini, feedback e scream sguaiato alla mano, potrebbero essere i nuovi Sonic Youth con quel qualcosa in più. Un rewind frenetico scioglie altri nodi: this is also post rock! Con quel qualcosa in più, però. Evidentemente i conti non tornano ancora. Le accordature ribassate, gli scatti famelici, le sparse acidità chitarristiche… ecchè, pure metal sono? Già – non solo, qualcuno potrebbe tirare in ballo perfino il post-core – ma, l’avrete capito, con quel qualcosa in più. Incredibile che un compito del genere, sulla carta suddivisibile in così semplici distinzioni, si stia complicando attimo dopo attimo. Lasciamo agli altri l’improba avventura di coniare nuovi termini per riunire tutte queste influenze, e concentriamoci piuttosto su quel qualcosa in più.  

Pensare, solamente, che in fondo era così facile. Il sax. Nella struttura dei pezzi, mischiato agli arpeggi, alle ripartenze, alle infiammabili dilatazioni psichedeliche come già gli ultimi Mastodon, ma senza la loro intrinseca pesantezza sludge, ovunque spuntano fiati jazz applicati, con metodo, ad un rock certo non originale ma elaborato, sicuramente fuori tempo massimo ma allo stesso tempo immarcescibile. Talmente scontata la sua presenza da passare sottesa, appena percepita, salvo poi esplodere in tutta la sua magniloquenza ed imporsi a fuoco, passaggio per passaggio. Quando si dice il bello dei dettagli… Virulente bombe noise piazzate nelle cristallerie di Canterbury. Quello che, formalmente, ne viene fuori, è “Call Me Dragon”, un disco che, a sentire le (poche) altre recensioni in giro, lascia tutti concordi almeno sotto l’aspetto dell’eleganza. Non si può far altro che essere d’accordo. Rarissime volte è una raffinatezza di seconda mano (“Deaf Machine”): il più sorprendono vivamente la scorrevolezza con cui si alternano i colpi e le parate, immerse in un contesto che ammicca addirittura allo space più kosmische. “Space Ritual” è una danza crudele, polimorfa, asettica che scarica il suo caricatore free in coda, a colpi di mellotron: su “Dirty Messages” potrebbero suonare tanto gli Shellac quanto i Godspeed You! Black Emperor, tanto gli Yakuza quanto i Today Is The Day, in un’invidiabile libertà strumentale che ha i vertici nella sezione ritmica e i fuochi nell’apparato liquido di chitarra e sax.  

Sette tracce sono un po’ poche, e il disco fa presto a finire, considerato anche il suo elevato peso medio che accelera proporzionalmente il tempo di fruizione. Ma il titolo di un intermezzo quasi rumoristico, “Biggie And Tupac”, lancia una nuova sfida per il futuro (roseo) dei These Monsters: un MC in squadra? Eclettismo alla mano, non è ancora lecito conoscerlo.  

Nel frattempo mi sono pure risposto: cosa mi è piaciuto di più? Quasi tutto.

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