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R Recensione

7/10

This Will Destroy You

Tunnel Blanket

Lavorare di pura sottrazione è un concetto astratto, matematico sino al midollo, che svela tutta la sua intrinseca difficoltà quando si cercano scappatoie per applicarlo. Isolare note, ridurre il parco strumenti, semplificare lo schema della canzone o ricercare sistemi “altri” per giungere al tanto agognato obiettivo: la strada non è, alla fin fine, così affollata. Per lunghi tratti, tuttavia, si ha quasi la sensazione di perdere di vista il significato dell’operazione, per cui le iniziali prospettive affondano sotto il peso di una sperimentazione sonora che si emargina consciamente dal tessuto da essa stessa creato: e la detrazione, a quel punto, diviene solo il pretesto per rompere ogni possibile schema comunicativo con l’ascoltatore. Rinnovarsi sottraendo, poi, implica un quoziente di complessità ancora maggiore. Si tratta di perdere parti di sé, o di mutuare semplicemente il linguaggio di base da forme più essenziali, arrivando nel contempo ad inquadrare la privazione dentro un dinamico diagramma evolutivo che riesca a fornire continuità con il proprio passato.

Arriviamo al dunque. I This Will Destroy You si erano imposti prima nel 2005, con un ormai celebre EP dalle belle speranze (“Young Mountains”), ed infine tre anni più tardi, grazie ad un esordio omonimo capace di assimilare la lezione chitarristica degli Explosions In The Sky (tornati anch’essi di recente sulle scene) e di trapiantarla, successivamente, in uno tra i più classici – ed un po’ logori – campi post rock, non apportando nessuna sostanziale innovazione ma riuscendo, nel contempo, a far smaltire la delusione di quanti avevano individuato in “All Of A Sudden I Miss Everyone” la chiusura (im)perfetta di un ciclo. “Tunnel Blanket”, seconda pietra distante dalla prima altri trentasei mesi, riprende solo la circolarità degli avamposti melodici e, per quanto concerne tutto il resto, riparte da zero. Una tabula rasa delle distorsioni shoegaze frammischiate agli arpeggi di scuola Mogwai (era ora), una totale e complessiva rivisitazione del giochino di accumulo e rilascio a tratti ormai seriamente irritante (siamo nel 2011, perdio, non nel 1996). Un atto di coraggio che non è detto possa venire davvero apprezzato.

Nella sua ansia di modificare quanto già scritto, l’iniziale “Little Smoke” cerca addirittura di confinare in coda i pochi scampoli armonici sopravvissuti all’uragano noise delle chitarre, presenza monopolizzante del blocco direttivo di una vera e propria mini-suite, con profondissime insenature gotiche che, a sprazzi, possono far tornare in mente i Long Distance Calling deprivati della durezza metal che li ricopre da sempre. Si sentirà ancora grattugiare e ferire le sei corde, ma one time only, nel passo pesante e cadenzato di “Black Dunes”. Poi, il silenzio. Il nulla. Deconstruction reconstruction. La ricostruzione inizia dai droni e finisce dai droni. Una scelta radicale che potrebbe fare annoiare molti, ne convengo. Eppure “Tunnel Blanket” non è un disco facile perché non si svela facilmente e non permette nemmeno una semplice decodifica dei propri assi portanti, tant’è che – poco ma sicuro – al primo giro è una noia mortale. La cruda schiettezza dello svelarsi progressivo di una musicalità disgregata, impalpabile, raffinata è qualcosa che entra sottopelle ascolto dopo ascolto, cercando un contatto (più fisico che etereo) con l’ambient neoclassico di scuola post-Duemila (le tortili sovraincisioni di “Glass Realms” sono l’esempio più vicino a quanto detto).

I This Will Destroy You si dimostrano, per l’ennesima volta, incapaci di aprire nuovi percorsi. Nonostante ciò, il loro post rock merita eccezionalmente attenzione. Lo merita, perché non ha paura di mettersi in discussione e di sporcarsi le mani, anche se questo comporta modificare le coordinate della consolidata tradizione (“Killed The Lord, Left For The New World”). Lo merita, perché non nutre grossi timori reverenziali e non inciampa in grossi errori di rivalutazione (salvo forse gli insistiti richiami ai Mono di “Communal Blood”). Lo merita, infine, perché ha confermato di essere sincero, vivo, emozionante. Questa parabola s’ha da seguire.

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Voto degli utenti: 7,2/10 in media su 6 voti.
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C Commenti

Ci sono 2 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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Filippo Maradei (ha votato 7 questo disco) alle 12:19 del 15 aprile 2011 ha scritto:

E' chiaro più di un legame ai GY!BE. Ma non solo: ne riprendono la lezione, tuttavia la trasformano in qualcosa di diverso, un esercizio al servizio di un ambient cupo, mitigato dai drone, affossato da imponenti digressioni noise. Chissà, forse è questa la nuova strada del genere, un post-post-rock fatto di meno sali-scendi e arpeggi melodici, e un substrato elettronico più consistente, sulla scia del Mark Nelson che vi pare (Labradford, Pan American...). Recensione centratissima, i punti di contatto sono quelli, e cresce davvero tanto con gli ascolti; molto bravo Marco, non fosse stato per te li avrei lasciati stare, sicuro di perdermi l'ennesimo "tentativo di". Eh, questi pregiudizi...

morpheo33 (ha votato 8 questo disco) alle 12:48 del 9 giugno 2011 ha scritto:

bellissimo, e recensione azzeccatissima! il lavoro di sottrazione è strariuscito, e il lavoro, pur nella sua omogeneità, risulta avvincente e profondo come non si sentiva da un pò!