R Recensione

7/10

Viti di Titanio

Il Giro di Vite

Capita, non di rado a dire il vero, di imbattersi inaspettatamente in realtà sotterranee per certi versi sorprendenti, che ti danno la vaga idea di quanto sia viva, pulsante e purtroppo nascosta la scena underground tricolore. Succede con eccellenze quali gli Zu, che fortunatamente hanno trovato miglior fortuna all’estero, e con migliaia di band, cantautori, sperimentatori che si districano a malapena nei labirinti fatti di speranze, festival gratuiti e autoproduzione. Una di queste realtà sorprendenti, che ho avuto la fortuna di ascoltare, sono i partenopei Viti Di Titanio. Originali fin dalla ragione sociale, di più alla luce del titolo del loro ultimo lavoro, l’ep Il Giro Di Vite, preso a prestito dall’omonimo romanzo di Henry James, romanzo che, parimenti al loro album, “da’ forma a suggestioni mutevoli ed ingannevoli come gli inquieti fantasmi dell’autore americano. Una continua ricerca di una verità che risulta essere sfuggente ed effimera” (dal loro sito).

Le Viti Di Titanio sono Marcello Vitale (voci, chitarre e autore di musiche e testi), Maurizio Vitale (batteria e percussioni), Francesco Fico (chitarre), Massimo Nappi (basso) e Carlo Contocalakis (flauto). Se il precedente ep (Storie d’Amanti e di Demoni, 2007) restituiva una band dal respiro quasi british, con tendenze al progressive saggiamente amalgamato al cantautorato tradizionale italiano, il disco in questione fluttua in territori più marcatamente post-rock, con concessioni alla melodia e un’italianità più ostentata, oserei dire sfacciata.

Calce Spenta, già presente nel precedente promo, è un mantra quasi liturgico, nella voce sovraincisa di Vitale, nella ripetizione ipnotica del ritornello (“ora che segui attenta nuoti in calce spenta”). Tornano in mente i Giardini di Mirò nelle aperture ritmiche, mentre il finale ci propone l’inquietudine trasmessa dalla voce di un bambino che continua a recitare il ritornello circondato da demoni, e una mazurka talmente fuori posto da far pensare che sia sempre stata lì. Tra pause e rumore si dipana Naguine, recitativo sfacciato e presuntuoso (nel senso buono) che provvede se possibile ad aumentare l’inquietudine dell’ascoltatore, un flauto viscido, la batteria sempre in primo piano, la chiusura delirante. Mi vengono in mente i Massimo Volume di Lungo i Bordi. Bambola di Porcellana potrebbe essere senza sfigurare un outtake de Il Vile dei Marlene Kuntz, un brano lento, rassegnato (“niente può lenire il dolore”). Dobbiamo leggere i crediti per accertarci che la voce sia sempre quella di Marcello, brano dopo brano metamorfica, cangiante. Tutto l’album pare attraversato da una rassegnazione consapevole, che traspare dalle liriche e dal canto costantemente ad occhi bassi e che ha il suo culmine figurato nella successiva Giro di Vite, null’altro che un Padre Nostro e un Gloria al Padre registrato in una chiesa da un manipolo di alieni spioni…

I Negrita in tempi non sospetti avrebbero ucciso per un brano come il bellissimo Nuove Forme di Chiusura, s’intrasentono i Blonde Redhead maschili di Melody of Certain Damaged Lemons, nella voce di Vitale che finalmente tradisce la sua napoletanità, e nella perfetta coesione ritmica di pelli e basso. Tangibile lo studio, la ricercatezza dei testi, con la ripetizione ossessiva del chorus che diviene marchio di fabbrica della band partenopea, in quello che il sottoscritto giudica il pezzo migliore del pur ricco ep. La chiusura del disco è una perla: Amara Terra Mia di Domenico Modugno, già diverse volte coverizzata dai più svariati artisti italiani, una canzone di per sé lacerante, incorniciata con rispetto da una chitarra in bilico e rabbiosamente cantata col groppo in gola.

In attesa di un esordio sulla lunga distanza, rinnovo la stima e auguro una pronta uscita dal labirinto. Bravi.

 

Myspace: www.myspace.com/vitidititanio

Video: www.youtube.com/watch (Naguine, live)

V Voti

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