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R Recensione

8/10

Dirty Three

Horse Stories

Se i desideri fossero cavalli – parafrasando i Blueboy – pregherei i Dirty Three. Padre Warren Ellis (violino), figlio Mick Turner (chitarra) e spirito santo Jim White (batteria) tengono per le redini una mandria di cavalli imbizzarriti, in questo loro terzo album, e ne tramandano le galoppate, i piccoli trotti e i passi incerti di zoccoli stanchi attraverso quel modo di suonare che farà la storia del rock-sperimentale nel successivo "Ocean Songs". Storie di cavalli o di risacca oceanica poco importa, i Dirty Three riproducono il mondo così com'è, con gli strumenti a dare voce a peculiari passaggi naturalistici o, nel nostro caso, a raffigurare precisi movimenti anatomici, tendini che si riscaldano, nervi che scattano, muscoli che si contraggono e così via. Insomma, avrete capito bene che la nostra Trinità australiana non solo sperimenta nuove frontiere musicali onomatopeicizzando il rock, imbevendolo di pura improvvisazione, ma porta ai massimi livelli l'espressione stessa di concept-album, che qui, nei loro dischi a soggetto, trova vero e autentico modo di esistere.

 Qualcuno potrà obiettare che mancano i testi a sancire un forte legame tra ascoltatore e ascoltato, ma a cosa servono davvero quando una "Sue's Last Ride" qualunque descrive nei minimi dettagli il pigro risveglio muscolare del cavallo di copertina, il lento sgranchirsi delle articolazioni, il breve trotto ammaestrato e la selvaggia corsa a perdifiato nella violenta jam-session finale. Tutto è suonato, tutto è raccontato: "Hope" con quel suo violino stridente che riprende i versi del flauto descrive uno stanco arrancare equino in un immaginario deserto d'Arabia; "I Remember a Time When Once You Used To Love Me" scalfisce la steppa di un Far West davvero poco "far" con gli zoccoli di un cavallo bandito, inseguito dal rullo incessante di White, sceriffo per una notte, mentre Ellis immortala l'inseguimento con una frenetica melodia tutta costruita sugli acuti tonali; "At The Bar" è la riscoperta delle proprie origini per il nostro puledro nero, una volata notturna con i compagni ritrovati per le praterie di un'epopea grandiosa aperta dagli accordi nudi di Turner, dalle pizzicate a mo' d'arpa di Ellis e dalle fugaci e repentine spazzolate di White. Per quanto semplice e diretta all'ascolto, la musica dei Dirty Three è però di complessa decodificazione: la matrice è rock, ma filtrata a richiami folk, innesti post-rock, romanticamente da camera, e talvolta articolata in passaggi blues, come dimostra l'happening verticale della splendida "Warren's Lament", squarciata fin da subito da un grave sfregare delle corde del violino, tornato placido pochi istanti dopo, di nuovo furente nello snodarsi del brano, e quasi ferino nell'accompagnamento vorticoso finale della drum-session di White che chiude l'apoteosi strumentale ridando un breve spazio a un languido violino.

 Musica realista, per sintetizzare. E realisticamente il 2012, che tanto sembra lontano da questo '96, non può spalancarsi meglio che con la splendida notizia di un ritorno dello sporco trio: facile intuire dove ci porterà "Toward The Low Sun" il prossimo Marzo; più difficile immaginare dove potrebbero farlo eventuali prossimi lavori: magari sul lato più luminoso della Luna?

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Voto degli utenti: 8,7/10 in media su 3 voti.
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C Commenti

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FrancescoB alle 9:35 del 25 dicembre 2011 ha scritto:

Disco incantevole, forse non brillante e vigoroso come i successivi, ma comunque notevole. Band di cui si parla sempre troppo poco (ah recensione efficacissima Fil).

Utente non più registrato alle 13:52 del 16 febbraio 2012 ha scritto:

Lavoro molto interessante