R Recensione

10/10

Codeine

The White Birch

Codeina: alcaloide dell'oppio, di struttura simile a quella della morfina. La  codeina è presente in proporzione variabile (da 0,3 a 3%) nell'oppio, da cui si può estrarre; viene però preparata specialmente per metilazione della morfina (sintesi parziale). È una base cristallina, solubile in alcool, la quale viene somministrata per via orale o rettale; il suo uso è in pratica limitato come sedativo della tosse. La codeina è tossica, ma, al contrario della morfina, non provoca assuefazione.

 

(Dal Dizionario Minerva di Chimica e Chimica Industriale)

 

Se oggi esiste, nell’ambito della musica indipendente, una florida scena che fonda i suoi presupposti sul rallentamento e la dilatazione della tradizionale forma canzone, sull’essenzialità e la scarnificazione degli elementi ritmici e melodici, se assistiamo al proliferare di un certo neo-folk che lambisce le derive decostruttiviste del post-rock e che fa del silenzio un fondamentale elemento sonoro ed espressivo, in buona parte lo dobbiamo alla lucida, geniale ed avanguardistica opera di uno dei più importanti gruppi degli anni ‘90, i Codeine. Mi perdonerete dunque, se prima di parlare dell’album in questione, faccio un breve excursus nel tentativo di contestualizzare il gruppo e di chiarirne l’immane influenza.

Reagendo alla frenesia ed alla caoticità della grande metropoli americana, la cui distanza dai bisogni dell’animo andava spaventosamente manifestandosi alla fine degli anni ’80 e la cui asettica freddezza stimolava la nascita di generi veloci ed aggressivi come no-wave e grunge, i Codeine elaborano una musica catatonica, ricca di pause e silenzi, che porta il concetto di lentezza e la contrapposizione fra pieni e vuoti al limite estremo, in chiara antitesi con i prodotti di mercato in voga all’epoca e con una società sempre più in balia di derive schizoidi.

Alla base di tutto c’è la tradizionale ballata americana, quella di matrice dolente ed intimista dei vari Tim Buckley, Nick Drake e Neil Young, all’epoca in via di rielaborazione grazie a gruppi quali i canadesi Cowboy Junkies o gli American Music Club di San Francisco. Il corpo classico della ballata viene smantellato dai Codeine nel suo scheletro portante, sezionato in ogni sua parte e riassemblato in maniera alquanto precaria e drammaticamente fragile attraverso fili sonori che sembrano poter cedere in qualsiasi momento. Il debutto del trio di Chicago (il fondamentale Frigid Stars, Sub Pop, 1991) segna la nascita dello slow-core, nell’accezione di genere che ancora oggi diamo al termine. Questo dovrebbe già bastare a dare un’idea del valore assoluto della band di Chicago. Volessimo trovare dei riferimenti per la proposta dei Codeine, al di là dell’ambito delle ballad già citato o del più ovvio (anche per vicinanza temporale) accostamento ai Galaxie 500, dovremmo andare a vagare nelle oscurità dei Joy Division, sottraendo la furia ritmica, o nel gotico austero e rigoroso dei primi lavori degli Swans, già alla base delle atmosfere da “viaggio” dell’acid-rock. Non è comunque esagerato dire che la proposta dei Codeine fu all’epoca giudicata inclassificabile, genuinamente sorgiva e innovativa nello stile al punto da far nascere una nuova definizione di genere che contenesse l’aggettivo più immediatamente riconducibile al sound del gruppo: lento.

Da un’altra prospettiva, l’importanza della band nel processo di ricerca e nello sviluppo di nuove vie al rock agli inizi degli anni ’90 si palesa nei nomi dei musicisti che vi hanno più o meno ufficialmente militato, durante il periodo di attività, ed ancor più in ciò che questi sono riusciti a fare negli anni  a venire dopo il prematuro, silenzioso scioglimento.

Il primo nucleo dei Codeine, formatosi a New York nel 1989, era formato da John Engle (chitarra), Stephen Immerwahr (basso e voce) e Chris Brokaw (batteria). Dopo Frigid Stars, con il gruppo collabora David Grubbs, già nei Gastr Del Sol, che troviamo al pianoforte ed alla chitarra nell’EP Barely Real (Sub Pop, 1992). Grubbs è l’anello di congiunzione fra i Codeine ed i contemporanei Slint, le due band più influenti dell’epoca. Senza essere mai stato un componente degli Slint, Grubbs, oltre ad essere uno dei più importanti chitarristi della scorsa decade, viene dalla precoce esperienza negli Squirrel Bait, gruppo hard-core degli anni ’80 dove militò con Brian McMahan, co-fondatore poi, insieme al batterista Britt Walford, della seminale band di Louisville.

Dopo la registrazione di Barely Real Chris Brokaw lascia il gruppo per formare i Come con Thalia Zedek. Il suo posto viene preso da Douglas Scharin, personaggio destinato ad influenzare l’intera evoluzione dello scenario post-rock con gruppi come June of ’44, Rex e Him.

David Grubbs è accanto ai Codeine anche per la registrazione del secondo ed ultimo LP, The White Birch, dove compare come chitarrista nei brani Tom e Wird.

The White Birch esce nel 1994 ed è, se possibile, ancora più estremo e definitivo dell’album precedente. Gli elementi peculiari del sound vengono accentuati: tempi più dilatati, ritmica più cupa e rarefatta, chitarra più minimale. Ma la vera novità è che Immerwahr, autore fino a quel momento di fosche litanie recitate con piglio dimesso, lacerante e narcotico, adesso canta, riuscendo paradossalmente a rendere questo lavoro più accessibile nonostante la maggiore disgregazione della materia sonora.

L’opener Sea è, come lo era stata “D” per Frigid Stars, una dichiarazione di intenti. Sette minuti di soffocata rassegnazione, di glaciale paralisi in cui una voce sussurrata si fa strada, lottando, fino a stendere una delicata melodia sul tappeto scucito degli strumenti, mettendo a fuoco di colpo un sentimento, un’intuizione, una visione.

“A white ship sails on a black sea, takes my love from me, and it takes so long but then I understand, I understand”.

Il chiaroscuro della fotografia artistica in bianco e nero, nella sua veste funerea e poeticamente decadente, triste, è l’elemento dell’arte visiva cui più di una volta nel disco si fa riferimento (a partire dalla copertina, dove “la betulla bianca” appare in tutta la sua invernale solitudine).

Protezione dello spirito attraverso l’isolamento, conscia accettazione passiva dell’orrore di vivere, incapacità di reagire e conseguente paralisi sono gli stati d’animo evocati da testi e musica.

The White Birch si sviluppa con una compattezza ed una omogeneità impressionante, che contrasta con la fragilità della musica espressa. Ogni brano è pressoché perfetto, sotto tutti i punti di vista, ed ogni nota, pausa o percussione è indispensabile al risultato finale. I Codeine definiscono un minimalismo di raro rigore, agghiacciante perfezione e formidabile efficacia.

Gli elementi musicali attraverso cui giungono allo scopo sono riscontrabili in tutti i nove brani del disco. Il ritmo si compone evolvendosi, quasi solo attraverso l’utilizzo di cassa e rullante, senza mai perdere la propria natura essenziale e rigorosissima. Il basso è profondo, scuro, ostinatamente cocciuto nel ripetere quelle poche note a intervalli che paiono interminabili. I lembi di queste strutture sonore sono cuciti insieme dalla chitarra che, sempre con esasperante lentezza, abbozza melodie relativamente articolate (anche nel tempo) e sviluppate spesso all’interno di un unico accordo, mutando semplicemente le voci al canto per comporre struggenti frasi attraverso drammatiche dissonanze.

La rabbia repressa, paralizzata come un mammut nel ghiaccio, è fisicamente percepibile nelle frantumazioni improvvise delle atmosfere, indotte da macigni chitarristici che arrivano inesorabili e pesantissimi come meteoriti e che svaniscono spesso senza terminare il loro cammino. Questi drammi sospesi contribuiscono a creare l’atmosfera ambigua di un’angoscia accogliente, sensuale, in cui il trio sembra cercare riparo e forniscono lo spazio in cui la voce, con passaggi misurati e calcolati dentro una danza ipnotica, può colpire marziale le corde delle emozioni.

Micidiale, nella splendida Loss Leader, la deflagrazione che caratterizza la seconda metà delle due strofe e che viene “aspirata” nell’istante della sua fine, creando un vuoto talmente potente da lasciare annichiliti. Riconoscibili anche, nel finale dello stesso pezzo, quelle dissonanze essenziali che sono il marchio di fabbrica degli Slint e che torneranno in maniera ancora più prepotente nei sei minuti di Wird, il pezzo più slintiano del lotto, dove anche la voce si riduce ad un marginale, appena recepibile, recitato “fuori campo”.

Vacancy è forse l’unico brano dove un certo romanticismo non viene annullato da scosse sismiche destabilizzanti. L’atmosfera resta sospesa per tutta la durata del pezzo, in bilico sul filo di continui crescendo davvero delicati, che mestamente e puntualmente si arenano, riuscendo ad infondere, per quanto possa essere possibile, un minimo di sicurezza e di calore in un contesto continuamente incerto.

La tensione irrisolta di Kitchen Light ci fa subito ripiombare nell’abisso dell’angoscia. È un crescendo soffocante nel suo non esplodere mai, una sfida al sistema nervoso ed alla tenuta cerebrale di chi ascolta. Monumento all’incapacità (impossibilità) di compiere ciò che si vorrebbe.

Washed Up poggia le sue stanche e dolenti membra su una linea di basso distortissima e “mossa” da una chitarra dispettosa che gioca a cadere sul battere invece che, coerentemente col suo compagno a quattro corde, sul levare. Gli accordi, portati con crudele geometria e regolarità, sembrano martellate su un’incudine e creano scompensi uditivi di difficile digestione. Fino a quell’unica variazione, dove ancora una volta tutto si asciuga, il basso torna dritto, la chitarra si ritira e la voce resta, struggente, a navigare in tanto nulla.

Arriva il momento del singolo che anticipò l’uscita del disco, Tom, una suite che si fa apprezzare soprattutto per la melodicità ed il forte impatto del ritornello, nonché per il lavoro delle due chitarre, pesanti, che affondano progressivamente nella claustrofobia alla fine del pezzo. Ides è l’ennesimo episodio narcotico, malato, davvero di una tristezza inesprimibile, capace solo di scindersi nei suoi elementi costitutivi in un finale auto-distruttivo che non lascia speranze.

L’album si chiude con Smoking Room, ballata che si nutre di un unico accordo e delle possibilità armoniche che su di esso vengono applicate. Un breve intervello dissonante nel mezzo è l’unico attimo che abbiamo per prendere una boccata d’ossigeno.     

Nonostante il carattere estremo ed “ostile” della loro proposta, i Codeine riuscirono ad ottenere un successo relativamente marcato, sostenuto certamente dalle lodi della critica (ricordiamo l’invito a partecipare alle mitiche sessioni radiofoniche di John Peel, una parte delle quali sarà pubblicata sulla compilation John Peel/Sub Pop Sessions), ma certificato anche dalle vendite, che portarono The White Birch al primo posto nell’indie-chart del Melody Maker. Indifferenti a questi importanti riscontri, i Codeine si calano in un silenzio destinato a diventare oblio. Sharin inizia a lavorare a quei progetti alternativi che gli porteranno ben più fortuna e l’unico momento in cui l’attenzione pubblica tornerà sui Codeine sarà soltanto un anno dopo, quando una loro versione di Atmosphere apparirà sul tributo ai Joy Division A Means To An End.

La scarna essenzialità e la perfezione esecutiva dei Codeine la ritroveremo nel decennio successivo in una miriade di gruppi eccezionali, attivi anche al di fuori del circuito strettamente slow-core. Penso al meraviglioso sound dei Karate come a quel capolavoro di geometria che è At Action Park degli Shellac. Ma sono gente come Low, Mazzy Star, Red House Painters, Idaho, Bedhead, Come, Black Heart Procession, Smog e decine di altri più o meno conosciuti, fino agli attuali Dakota Suite a dover rendere omaggio per primi a questo trio americano dall’immane visione artistica, capace di convertire ed esorcizzare in musica, con una lucidità fino ad allora sconosciuta, non solo le scomode emozioni personali, ma anche e soprattutto il cambiamento attitudinale di quella generazione nei confronti della propria drammatica condizione giovanile.

Che siate fan o no del genere, La Betulla Bianca deve stare nei vostri scaffali. Potrete anche costringerla al silenzio, se vi sembrerà il caso. Ma sarà un gigante che dorme.

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Voto degli utenti: 9,2/10 in media su 8 voti.
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REBBY 10/10

C Commenti

Ci sono 4 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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Alessandro Pascale (ha votato 9 questo disco) alle 10:04 del 19 giugno 2009 ha scritto:

capolavoro

e complimenti per l'accuratissima recensione

paolo gazzola, autore, (ha votato 10 questo disco) alle 10:17 del 19 giugno 2009 ha scritto:

Errata Corrrige

Non chiedetevi cosa significhi "intervello dissonante": è un errore, maledizione, volevo scrivere intervallo.

REBBY (ha votato 10 questo disco) alle 10:48 del 19 giugno 2009 ha scritto:

Si davvero una grande recensione ed un grande

acquisto per il sito (Paolo). Sul "gigante

dormiente" mi raccomando ogni tanto di svegliarlo!

(durante il pranzo io lo sveglierò di sicuro eheh)

luca68 alle 13:34 del 18 febbraio 2010 ha scritto:

immensi

non serve aggiungere altro