Low
C'mon
In un mondo in cui i capi di Stato bombardano i propri paesi, i primi cittadini truffano gli altri cittadini, gli imputati condannano i giudici e gli eletti dal popolo si offrono per denaro come puttane di strada, la notizia migliore che si possa leggere (su giornali che non danno notizie, ma comunicati) è il ritorno al passato. Non è nostalgia, non è neanche retorica, ma se non è vero che “si stava meglio quando si stava peggio” sicuramente “si stava meglio quando si stava meglio”. Quando ognuno faceva – in maniera prevedibile e scontata – quello che ci si aspettava facesse: il genitore non induceva le figlie alla prostituzione, il giornalista raccontava le notizie e non le creava, un dittatore era un dittatore, una legge era legge. In un mondo così libero da poter negare tutto, anche la libertà stessa, in cui tutto è ma può non essere, in cui 2 + 2 fa sempre 4 ma si può anche non essere d'accordo; c'è voglia di Restaurazione, c'è voglia di recuperare la vecchia nomenclatura, di mettere in discussione alcuni cambiamenti quando non il concetto stesso di cambiamento.
Poi – certo – abbiamo goduto e gioito del cambiamento “rock” dei Low di “The Great Destroyer” (2005) e anche della svolta “elettronica” di “Drums and Guns” (2007). Così, dopo una lunga carriera tracciata in crescendo sui binari slowcore (Alan Sparhawk ci perdonerà) e culminata con l'estasi sublime di “Trust”, il trio del Minnesota aveva provato ad aggiungere (quintali di) chitarre nel 2005 per poi toglierle del tutto nel 2007. Scelte forti, coraggiose, che lasciavano aperto ogni scenario per questo atteso ritorno 2011. Invece, gli sposi più intonati del mondo (perchè questi due hanno una famiglia, e scrivono canzoni mentre lavano i piatti o potano le rose in giardino, e fa un certo effetto immaginarli cantare “happy birthday to you” durante le feste di compleanno dei figli...) tornano sui loro passi, abbandonano dichiaratamente ogni velleità innovatrice e danno fondo a quel patrimonio di intensità melodica che è il tratto distintivo di un'intera carriera (la loro) e di un intero genere musicale (tutti gli altri).
I Low tornano a casa, a Duluth, nella chiesa sconsacrata già utilizzata per le registrazioni di “Trust”, ed è proprio a quel disco che si possono ricondurre le coordinate sonore di questo “C'Mon”. Due flashback diretti e immediati: gli accordi di “You see everything” (che richiamano “Last stownstorm of the year” in versione meno tesa e – si fa per dire – più solare) e l’irresistibile andamento chiesastico di “Nightingale” (splendido gospel a luci soffuse molto simile ad “Amazing grace”, brano di apertura di “Trust”). Tutto il disco gioca su questo ritorno al passato, che più che remoto è prossimo: non è un ritorno ai silenzi devastanti di “Long Division” o “I Could Live in Hope”, quanto una rielaborazione in chiave “aperta” (vogliamo dire “pop”?) di “Trust” e “Things We Lost in the Fire”.
Sognante, primaverile e “pop” è l’apertura affidata al singolo “Try to sleep”, ninna nanna campestre dolcemente adagiata su uno xilofono che sembra preso dalla “domenica mattina” dei Velvet Underground; altrettanto primaverile è la chiusura acustica “Something turning over”, qualcosa di molto vicino a quella che dev’essere una delle sessions casalinghe di Alan Sparhawk e Mimi Parker.
Nel mezzo, si muovono momenti di tormentata tensione immancabili per chi conosce i canoni della band: il crescendo acustico della già citata “You see everything”, il gospel profondamente devoto di “Done” e la richiesta d’amore disperata di “$20” (“My love is for free/my love”) sono perfettamente inseribili tra gli standards ormai consolidati a marchio Low. A volte il richiamo è al passato ancora più prossimo: le chitarre “Neil Young” di “Witches” (impreziosita dal banjo di Dave Carroll e dalla lap-steel di Nels Cline dei Wilco), e il boato finale di “Majesty/Magic” rimandano direttamente a “The Great Destroyer”; ma alla fine ci si deve semplicemente arrendere all’evidenza, alla forza emotiva di una band unica nel tessere trame semplici ma al tempo stesso maestose (“Especially Me”), una band composta da persone semplici che – senza retorica - amano il mondo. Un mondo in cui i Low fanno i Low.
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