Low
Drums and Guns
Si pensava che i Low avessero deciso di voltare pagina con The Great Destroyer e la scelta di approdare al formato canzone pop rock più tradizionale. Una svolta artistica che offriva ampie possibilità di evolvere lo slowcore ampiamente approfondito in oltre dieci anni di splendida carriera. C’era però il rischio che i Low non fossero più i Low, che perdessero la loro natura stilistica, insomma che arrivassero a elaborare canzoni più rivolte al portafogli che al cuore. Ovviamente niente di tutto questo veniva lasciato presagire in The Great Destroyer ma col tempo si impara che più passano gli anni e più diventa difficile per un gruppo riuscire a mantenersi su buoni livelli qualitativi senza ripetersi. Di anni ne sono passati ormai tredici da quel mirabile esordio che era I Could Live In Hope eppure sembra proprio che i Low non riescano a perdere la proprioa vena creativa.
Drums And Guns non è un album di canzoncine pop rock commerciali. Non è neanche un album di canzoni pop rock. È sicuramente un album che strizza l’occhio al proprio passato musicale, ma sarebbe assurdo definirlo un’opera di remake. Sembra allora che Drums and Guns non sia altro che il proseguimento di quel percorso sonoro tipicamente intimista e slow-core di cui il ricordo più prossimo si deve allo splendido Trust (2002). Non si può certo sapere se The Great Destroyer rappresenterà solo un fenomeno di passaggio per la band del Minnesota o se sarà un’esperienza che verrà ripresa negli anni a venire.
Nel frattempo ci rimane Drums and Guns, un album passionale ed intenso, sofferto ed emotivo, sicuramente molto triste. Del tutto privo di scorie rabbiose, ascoltandolo rimane un senso di vuoto, di smarrimento, e soprattutto di una profonda e misteriosa malinconia. La parte strumentale è ridotta all’osso e a far la parte del padrone il cantato ipnotico di Alan Sparhawk e Mimi Parker, capaci di variare tonalità e sensazioni a seconda delle circostanze. Epica la prestazione della Parker in Sandinista in un cantato tanto passionale da sfiorare quasi il soul. La basi sonore invece tornano ad essere di una semplicità disarmante che rasenta quasi il banale: di fatto tiepidi giri di basso o di chitarra con una batteria standard oppure delicati piani sonori a riempire lo spazio secondo l’insegnamento post rock e ambient. Così il brusco pavimento di distorsioni che troviamo in Pretty People, mentre Belarus crea un’atmosfera soffusa e sommessa che inizia un viaggio molto simile a una processione funebre. Breaker è uno dei pezzi più riusciti: l’handclapping introduce note metafisiche di tastiera e un coro bucolico. A fare da contraltare un assolo distorto ma elegante. Anche quando i Low tentano di introdurre elementi acidinon riescono a non agire con classe. Così anche in Dust On The Window le poche stoccate di chitarra diventano un epicedio tortuoso ma romantico e pongono in secondo piano sia la batteria pulsante come un cuore sia il cantato di velluto.
Take Your Time è l’ennesimo sofficissimo letto di suoni su cui si stende il soul di Sparhawk, il quale però dà il meglio di sé nella sofferta melodia di In Silence, più ricca di arrangiamenti.
Murdereer sfrutta l’ennesimo, spettacolare assolo minimale in un crescendo emotivo da pelle d’oca molto prossimo al post-rock. Ma la tensione non esplode mai in un urlo liberatorio e si rimane soffocati dall’ansia. Così come in Hatchet, In silence, Your Poison si aspetta sempre quell’esplosione primordiale a spezzare le catene della malinconia, ma è un’attesa vana che lascia l’amaro in bocca e la consapevolezza che non basta un grido liberatorio o un’orgia sonora a tranquillizzare sé stessi e gli altri.
L’album si chiude con Violent Past, altro rito proto-religioso dominato dall’intensità delle tastiere e dall’incedere rassegnato di Sparhawk.
Non rimane nient’altro da dire, se non che Drums And Guns profuma davvero di capolavoro.
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