Low
I Could Live In Hope
Forse è vero che certi gruppi hanno un destino impresso già nel loro nome. I Low e lo slow-core. E cos’è lo slow-core? Armiamoci di dizionario e scopriamolo insieme: “Il termine slow-core si riferisce a un genere minore dell'alternative-rock, che sfuggì alla stretta morsa dell’indie-rock anni ‘80 e si distinse, invece, per uno slower tempos di matrice minimalista; può essere intesa come un'altra possibile dimensione d’origine il downtempo dei primi ’90: è l’inizio di quell’affascinante connubio, seppur ancora a livello embrionale, tra elettronica e rock che germoglierà poi all’inizio del nuovo millennio. Il termine è inoltre molto usato, specialmente nella sua dicitura sad-core, come abbreviazione giornalistica in rifermento a un certo tipo di musica dai temi depressivi”.
Ma facciamo un passo indietro, anzi due, tre, mille. Focalizziamo il luogo e il periodo storico in cui sono collocati i Low di “I Could Live in Hope”: Stati Uniti; Minnesota; Duluth, 1994. È l’era del grunge e dei Nirvana, dell'ascesa del brit-pop, dell’industrial-metal dei Rammstein e Nine Inch Nails. Insomma, non proprio la cornice ideale per un quadro, quello dei Low, denso di sentimenti, significati e significanti: un’evasione dalla realtà verso mondi sospesi ed estranei, raggiungibili solo attraverso un mezzo onirico adatto. E quale “tappeto volante” migliore della loro stessa musica?
Un corpus strumentale semplice, ridotto all’osso: chitarra, basso, batteria e due voci. Semplice sì, ma mai così efficace ed espressivo. Non solo musicisti, anche poeti: come una lacrima di pioggia sul vetro freddo di una macchina, la melodia scivola sempre più verso il basso catturando l’anima e il corpo dell’ascoltatore in un vortice di triste catatonia. Parlando di “poetica della musica”, emozioni così forti, così intense non si sentivano dal ’91, da quelle “fredde stelle” dei Codeine o, andando ancora più indietro nel tempo, dal ’69, custode di ben due pietre miliari: “Happy Sad” di Tim Buckley e “Five Leaves Left” di Nick Drake. In tre parole: “misticismo da contemplazione”.
Ma ora parliamo dell’album, parliamo pure di questa “possibilità di vivere nella speranza”.
“Too many words” servirebbero per parlare, o anche solo avvicinarsi a “Words”, prima traccia dell’album, ma questo è uno sporco lavoro e qualcuno deve pur farlo. Ebbene, le nostre orecchie vengono subito baciate da profondissime linee di basso, ammaliante nella sua triste sacralità. Poi chitarra e batteria: disegnano un cerchio immaginario nel vuoto: la melodia che si rincorre: gli accordi che si susseguono, che s’inseguono, che si ripetono in loop come un rituale mistico. Infine la voce di lui, Alan Sparhawk, che sfonda per sempre le barriere del nostro io. Una litania, la sua, che sarebbe in grado d’ipnotizzarci per giorni e giorni e mesi e anni, se non durasse solo sei minuti; arriviamo a “Fear”, breve ma intensa sovrapposizione di due voci, quella di Sparhawk e della Parker, cupa, cupissima nel testo. Ecco, altra costante dei Low: i testi. Concisi, taglienti, secchi, violenti, decisi, sensoriali; non seguono un filo logico o una linea narrativa, descrivono sensazioni, gesti, paure, attimi, istantanee del linguaggio tattile; parlano di arrendevolezza, apatia, amicizia, di sentieri incompiuti, di errori fatti. Il tutto pervaso e imbevuto d’una vampata di malinconia alcolica, calda, calda, calda, caldissima.
“A man in a box wants to burn my soul…” [Words], quant’è vero.
“Cut” è del tutto simile a “Words”: questa volta è la chitarra a scandire per prima il grado di desolazione del brano; la voce di Sparhawk si fa qui più profonda, mentre tutto intorno si crea un’aura di amarezza sotto le sonorità liturgiche di basso e batteria. Sul finale il ritmo si fa leggermente più acceso e incalzante, quasi fosse l’ultima danza abbagliante di una candela prima del suo naturale spegnimento: un compleanno proprio da evitare. Che dire poi di “Slide”, intimo capolavoro vocale di Mimi Parker. Una ninnananna strumentale (chitarra e batteria) apre il sipario del dramma: ed è già tragedia… La voce è carnale, materna, cullante. Verrebbe quasi da custodirla come un oggetto prezioso, un carillon di pregevolissima fattura, ricamato sul ritornello dagli echi lontani di Sparhawk. Ascoltando la Parker, torna alla mente quella maga circe della Elizabeth Fraser (Cocteau Twins), cosi assurdamente metafisica, eterea e reale al tempo stesso. Più avanti, “Lazy”, apre un lamento funebre. La Sarah del brano è pigra. Pigra, stanca, rallentata, tediata: un’annoiata creatura leopardiana narcisista del proprio essere, chiusa in un mondo che non vuole altro che iniziare e finire con lei. E noi? Come ci emozioniamo? Pensiamo a Joyce e alla sua “Gente di Dublino”: in “Araby”, uno dei racconti dello scrittore irlandese, trova spazio una metafora di struggente bellezza e incredibile veridicità: siamo ragazzi innamorati della musica (in realtà di una ragazza ma astraiamo pure il concetto); il nostro corpo è un’arpa; i nostri sentimenti le corde dell’arpa; bene, la musica, la ragazza, i Low sono i suonatori di quell’arpa, i musicisti della nostra carne. “Lullaby” è una lunga ballata dal profilo sognante in cui la Parker diventa la nostra personalissima Morfe(a). Si perdono i confini di tempo e spazio, siamo immersi in un oceano di nero. Ci lasciamo trascinare dalla corrente, distesi come morti su un letto infinito di liquido amniotico: morti prima ancora di nascere. Ma ecco che le chitarre aumentano di ritmo, s’intrecciano fino a creare arabeschi sospesi nel vuoto: ci aggrappiamo a questi grovigli sinfonici e finalmente riusciamo a tornare nel mondo reale. I papaveri di Morfeo appassiscono lentamente…
Superata l’impalpabile (per meriti e difetti) “Sea”, veniamo risucchiati nel vortice di “Down”, abulica melodia che è al contempo dolore e medicina dei nostri mali. Qualcuno ha detto “Medicine Bottle” dei Red House Painters? Sì signori, sì. Sempre più giù, e assieme sempre più in alto. Iniziamo a intravedere i confini di questo buco nero: le vibrazioni di “Drag” e “Rope” si accavallano senza alcun particolare degno di nota. Non che sia un male eh, il nostro cuore ha già sofferto abbastanza! Eccoci arrivati all’ultima perla, “Sunshine”, taumaturgico rifacimento della celeberrima “You Are My Sunshine” di Jimmy Davis e Charles Mitchell, datata 1940. Quasi un'elegia all'amore, è l’unico estratto di candida speranza dell’intero “I Could Live in Hope”. Quei raggi di sole ci guariscono definitivamente.
Come un cavaliere medioevale riusciamo dunque a sopravvivere alla battaglia riportando però ferite su ferite. Si dice che le cicatrici fortifichino il corpo e temprino l’animo. Io non credo; credo piuttosto che i tagli e gli squarci subìti ci rendano, invece, sempre più prigionieri di quella torre alta e scura che è la dimora metafisica e realissima dei Low. In questo caso, i draghi possono anche attendere…
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