R Recensione

7/10

Low

Ones And Sixes

La sensazione di una membrana che sta per lacerarsi, che finalmente si spacca con l’ingresso portentoso della chitarra distorta, luce perforante (al minuto 7:39 della canzone, se vogliamo essere precisi). E poi è marea che trascina, e che cresce, illimitato liquido: è questo il primo, scintillante approccio con il nuovo disco dei Low, ascoltando la coda di Landslide sulla carrozza di un treno, l’Adriatico sulla destra, al tramonto di settembre.

Membrane dischiuse e bagliori improvvisi spingerebbero a pensare a musica radiosa, slanciata, ma l’ennesimo lavoro della band simbolo dello slowcore si presenta fin dai primi accenni come dark e malinconico, benché più dinamico rispetto all’ultima fatica (The Invisible Way, 2013, al quale un brano, The Innocents, pare ancora appartenere). Si veda Gentle, così gelida nei puntigli elettronici, o No Comprende, che potrebbe fare da sfondo a un corteo funebre, tra vetusti candelabri, e grande sei corde funerea alla fine. O ancora il pezzo di chiusura, DJ, tra accordi elettrici titillanti, a reiterare la formula, il rituale ormai collaudato, lungo giro di chitarra, soliti falsetti di Mimi Parker.

L’evocazione: ecco la parola magica dei Low. Musica meditativa, essenzialmente pacata, composta (eppure supportata da grancassa, piatti e tamburi) che rimanda ad altro, riuscendoci con poco - poco si fa per dire. Si guardi la copertina di quest’album: un arbusto secco, scheletrico, nero da sembrare bruciacchiato, su sfondo interamente grigio, rami filiformi: è da quella sottigliezza e da quel minimalismo (e assai minimalista è un brano come Into You) che si dipanano le trame nascoste dell’evocazione.

C’è qualche episodio minore, in questo Ones And Sixes: Kid in the Corner, sporco pop-rock un po’ stantio; le ripetizioni sterili e sciatte di What Part of Me. Ma mai la piattezza e la noia che qualcuno imputa ai Low: semmai la capacità, o sarebbe meglio dire il talento, di rielaborarsi di continuo, e farlo con classe, trattenendo il solito marchio di fabbrica. 

La verità è che dopo vent’anni e dieci dischi sono ancora qui, a livelli più che accettabili. E il ritornello di Spanish Translation (All that I thought I knew then / Flow out the back of my head), magnetico e gonfio, è tra i migliori sentiti quest’anno.

V Voti

Voto degli utenti: 7,3/10 in media su 3 voti.
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REBBY 7,5/10

C Commenti

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fabfabfab (ha votato 7 questo disco) alle 12:26 del 16 ottobre 2015 ha scritto:

Bravo Jacopo perchè hai tenuto duro. In genere i dischi dei Low finiscono per prendere 8, anche quando in partenza c'erano dei dubbi. Il fatto è che dopo un paio di ascolti attenti te ne innamori. Qui, non dovendolo recensire, resto sul 7 anche io. I nuovi "dinamismi" non mi convincono, le aperture pop nemmeno e c'è un senso generale di "approssimazione" o comunque di "leggerezza" compositiva. Sono sempre bravi, ma per la prima volta il dubbio rimane.

tramblogy alle 23:02 del 16 ottobre 2015 ha scritto:

intrigante. chi viene a vederli a bologna?

Jacopo Santoro, autore, alle 0:02 del 17 ottobre 2015 ha scritto:

Avrei dovuto, all'Antoniano. Ma la personale lotta contro gli odontoiatri me lo impedisce, purtroppo.

REBBY (ha votato 7,5 questo disco) alle 12:10 del primo dicembre 2015 ha scritto:

Quando si dice invecchiare bene, insieme eheh

Mirabile sintesi della loro produzione dell'ultimo decennio, da Drums and gun a The invisible way, a mio parere il 7 era più appropriato per i due precedenti, questo merita qualcosina in più. Va beh, pignoleria!