Low
The Great Destroyer
Di nuovo sulla scena dopo il successo, almeno nei circuiti non preferenziali, di TRUST. Buttate via ogni pregiudizio. Specialmente se li avete sopportati a fatica nel tour di due estati fa quando supportarono i Radiohead nelle date italiane. Lenti? Stralenti? Pallosi? Noiosi? Obiezione numero 1: dal vivo, uno dei pochi casi al mondo, suonano più slow che in album (chi li ha visti indoor definisce lo spettacolo un'esperienza allucinante).
Obiezione numero 2: è un disco con squarci elettrici che fanno rizzare i capelli. Perchè una scarica che si innesca nel torpore dello slow-core è più efficace di una scarica qualunque. Sia chiaro, nessun tradimento. Nessuna rivoluzione. L'atmosfera lenta e solenne del terzetto di Duluth c'è tutta. Malinconici più che mai, rassegnati, nella morsa del disincanto, ma gli spunti che lasciano di stucco non sono pochi, come detto nell'obiezione n.2.
Percussioni da danze tribali, voci dream pop ma soprattutto un approccio che strizza sempre di più l'occhio al lo-fi. E' lo stile Low. Come i Grandaddy riarrangerebbero Neil Young, dal broncio mal celato di "California" al bagliore di "Silver rider" fino agli archi di "On the edge of". Una sensazione di ipnosi a tratti angosciante come nell'apertura solenne della splendida "Monkey o la ritmica "nu-metal" di "Everybody's song". Ritmi cadenzati che sfociano in improvvise accelerazioni e ammiccamenti noise tra chitarre gracchianti ai limiti del fastidio. Basti ascoltare "When I go deaf" o "Pissing". Insomma non ci si lasci ingannare dall'effimero spensieratezza di "Just stand back" e "Walk into the sea". I sette minuti evanescenti di "Broadway (so many people)", dal titolo emblematico, sono un inquietante viaggio nell'angoscia di chi preferisce sempre e comunque restare fuori.
"THE GREAT DESTROYER": un'esperienza mistica.
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