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7/10

Mark Kozelek & Desertshore

Mark Kozelek & Desertshore

Instancabile e alacre, Mark Kozelek regala ai suoi fan un altro disco, in attesa del ritorno dei Sun Kil Moon previsto a gennaio.  A questo giro della giostra salgono i Desertshore, progetto di cui sono titolari i vecchi sodali Phil Carney, Chris Connelly e Mike Stevens, autori delle musiche mentre Mark scrive i testi, suona, canta e riannoda i fili della memoria, inseguendo altri fantasmi della sterminata autostrada. Incipiente incontinenza senile? Probabile. Oppure semplice voglia di spedire cartoline dal suo tormentato mondo interiore, e un modo di lenire ferite nell’animo che si credevano ormai del tutto suturate, come si evince dai pensieri dedicati in  “Sometimes I can’t stop” e “Tavoris Cloud” a due amici recentemente scomparsi, Jason Molina e Tim Mooney degli American Music Club.

Rispetto al precedente lavoro con Jimmy Lavalle, caratterizzato da insolite venature elettroniche, a dire il vero non del tutto felici a parer di chi scrive, il cantautore americano torna su sentieri più consoni. Ossia, un ispirato zibaldone elettro-acustico fatto di delicate miniature bucoliche, lontane reminiscenze alt-country, ruggenti aperture chitarristiche e divagazioni che rimandano al glorioso passato dei Red House Painters: si ascoltino in tal ottica le movenze gelide e in moviola di “You are not of my blood”, quasi un ricordo pescato in un cassetto ai tempi dell’epocale “Down Colorful Hill”.

Non mancano episodi da circoletto rosso, che i più devoti cultori del buon Mark potranno con cura riporre tra le perle del suo ormai cospicuo canzoniere; “Seal rock hotel”, forte di una melodia che scorre fluida sulle ardite traiettorie dell’ottovolante; la brillante fantasia di “Katowice or Cologne”, dal titolo quasi un sequel della splendida “Tonight in Bilbao” di pochi anni orsono; l’agreste  malinconia di “Don’t ask my husband”, puntellata da un soffice wurlitzer youngiano sullo sfondo. E poi “Brothers”, in cui sontuosi fraseggi pianistici di Connolly accompagnano il nostro eroe nell’ennesimo viaggio verso le sue radici in Ohio, qui dipinto con colori tenui e distesi, lontani anni luce dal furore di una “Lord kill the pain” , in cui svettavano versi quali  “Let me see the burning of my hometown”.

Il momento cardine dell’album è probabilmente l’arsa e poderosa cavalcata crazyhorsiana “Livingstone Bramble”, forte di un testo non-sense che rimanda al Neil Young di “Re-Ac-tor”. Un Kozelek insonne si dibatte tra i soliti incontri di boxe su Espn e riflessioni del calibro di “I can play Rob Fripp and Johnny Marr and make circles ‘round Jay Farrar” e “I like Kirk Hammett and Steve Vai but I hate Eric Clapton and Nels Cline, I hate Nels Cline”, seguiti da un divertente assolo ronzante di Carney, evidente parodia dei Wilco.

Oldness comes with a smile”, declamava anni fa Mark: scrivendo questo sberleffo almeno una rara risata se la sarà davvero fatta.

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zagor alle 16:45 del 9 ottobre 2013 ha scritto:

qualcuno che parla male degli Wilco allora c'è.

nebraska82 (ha votato 6,5 questo disco) alle 15:29 del 15 ottobre 2013 ha scritto:

credo che kozelek detesti cordialmente anche jeff tweedy, avevo letto qualcosa del genere in passato...."livingston bramble" per me è abbastanza bruttina però, le mie preferite sono "seal rock hotel" e "tavoris cloud". kozelek resta un grande per la sua carriera, ma mi sa che in vecchiaia il vizio del solipsismo lo sta accentuando un po' troppo....