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R Recensione

8/10

Sun Kil Moon

Admiral Fell Promises

Mi fanno sorridere le iperboli, le esagerazioni e le estremizzazioni. Il linguaggio comune ha ormai sostituito gli aggettivi con i loro superlativi, per cui se ti piace un alimento non puoi definirlo semplicemente “buono” , ma devi dire che è “buonissimo”. Se ti chiedono un parere su un film e tu rispondi che è “bello”, avrai espresso un parere tiepido, e il tuo “bello” verrà mentalmente tradotto dal tuo interlocutore in termini negativi o quasi. Non ce n’è, se vuoi esprimere il tuo apprezzamento devi dire che è “bellissimo”, “divertentissimo”, “fortissimo”.... e via così fino al romanesco "deligadissimo" di un recente spot pubblicitario.

In maniera analoga, non mi sono mai piaciuti i "fan". Per "fan" intendo non un normale e appassionato fruitore di musica che esprime preferenze o predilezioni, ma quei soggetti gravemente affetti da una sindrome "monovisiva" che gli impedisce di vedere il mondo che circonda il loro idolo, quel Profeta musicale che "ha cambiato la mia vita". Mi viene in mente - facile - "la combriccola del Blasco", ma anche gli intellettuali ultras dei Pink Floyd non sono da meno (quelli che qualunque nota arrivi alle loro felpate orecchie commentano piccati: "questo lo facevano già i Pink Floyd venti anni fa") oppure, più in generale, quelli che ascoltano solo un artista, quelli che quando entrano in un negozio di dischi escono con il ventunesimo bootleg live dei Pearl Jam, con la tredicesima ristampa dei Velvet Underground o con il cinquantesimo 7'' di Bonnie "Prince" Billy; con una fedeltà da far invidia ad un cane pastore, con un senso di appartenenza così coerente che se applicato - dico per dire - alle istituzioni dello Stato, renderebbe questo mondo un paradiso di giustizia e correttezza.

Ora, fatta questa doverosa premessa, Mark Kozelek è bravissimo, intelligentissimo e tanti altri superlativi che adesso non mi vengono in mente. Ogni nota pubblicata - a suo nome, a nome Red House Painters o a nome Sun Kil Moon - è entrata di diritto nella mia fonoteca e non accenna (ora e sempre) ad allontanarsi dalle prime posizioni della mia personale classifica. Io appartengo alla "combriccola di Mark Kozelek", io sarò sempre un "sorcino" di Mark Kozelek. Che scriva pagine immortali di slowcore con i Red House Painters, che si presenti in solitudine con improbabili dischi di cover degli AC/DC o dei Modest Mouse o che decida di tingere di malinconia il rock con i Sun Kil Moon, io sono con lui, devoto e accondiscendente come un direttore del Tg1.

Sono qui anche oggi, di fronte a un disco dalla copertina nera e imperscrutabile come quella del precedente "April" (2008), uscito ancora a nome Sun Kil Moon, sebbene ormai il nome della band abbia perso qualsiasi significato. Perché la band non c'è più, c'è solo Mark Kozelek, con la sua voce e la sua chitarra. Un ritorno alle origini in piena regola, un viaggio al contrario verso quella dolorosa assenza di luce che caratterizzò i primi lavori dei Red House Painters.

"Alesund" ha un' introduzione "anti-commercial" fatta di corde di nylon pizzicate con eleganza e senza alcuna fretta, poi diluisce speranze ed illusioni attraverso deserti  di chitarre in stile "flamenco" e quel tono di voce che è ormai più di un semplice marchio di fabbrica. La voce di Mark Kozelek è la stessa da vent'anni: nessun segno di cedimento, nessuna increspatura, nessuna volontà di protagonismo. "Half Moon Bay" aggiunge dinamismo introducendo arpeggi in saliscendi e abissi quasi silenziosi. La novità è proprio nell'uso della chitarra, le cui corde non subiscono il solito appassionato trattamento "strumming" ma un elegante (e classicheggiante) "fingerpicking" influenzato - per ammissione dello stesso Kozelek - da giovani artisti come Kaki King. A questo si devono i molti passaggi di chitarra classica che sembrano segnare un punto d'incontro tra il consueto approccio slowcore del nostro e artisti come Nick Drake o - ancora di più  - John Fahey: gli ultimi momenti di "Half Moon Bay", alcune sezioni di "Church of The Pines" e "Bay of Skulls". Nuove ispirazioni per uno dei migliori autori della storia musicale recente che, per fortuna, continua a mantenere vivo il suo personalissimo stile (quel modo di "chiudere" la canzone fino a farla sparire - "You Are My Sun", ma allo stesso tempo quella capacità di drammatizzare le aperture melodiche - "The Leaning Tree") fatto esclusivamente di pancia e di cuore. Tutto qui.

E si è voluto tacere - per una infantile forma di gelosia - dei testi. Quelli sono un affare privato tra noi fans e Mark. Un ammiraglio che mantiene sempre le promesse

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Voto degli utenti: 7,1/10 in media su 20 voti.

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gull (ha votato 7 questo disco) alle 0:29 del 28 luglio 2010 ha scritto:

Mi sei piaciuto, Fabio. Hai uno stile riconoscibilissimo. Ho letto le prime parole ed ho subito pensato che la recensione fosse opera tua. Il disco non l'ho ancora ascoltato, ma lo farò presto. Per adesso mi accontento di usufruire del nuovo servizio messoci a disposizione qui su storia.

synth_charmer alle 8:30 del 28 luglio 2010 ha scritto:

Già, è proprio una recensione piacevolissima. Io dico che è bello quando un recensore si mostra sinceramente emozionato e scrive del disco con un certo trasporto, anche quando è consapevole che magari si tratta di una reazione individuale. Ti è successo anche l'anno scorso con Anthony & The Johnsons, e alla fine sono le recensioni più belle da leggere. E' un peccato quando espressività di questo tipo debbano essere limitate e adeguate a degli schemi perchè non sono condivise anche dagli altri, non c'è cosa più bella degli scritti di uno scrittore/recensore abile e competente pienamente liberi da condizionamenti/suggerimenti/correzioni. Grande Fabio!

fabfabfab, autore, alle 0:39 del 29 luglio 2010 ha scritto:

Grazie per i sinceri complimenti. In realtà io butto solo lì un paio di fesserie per arrivare a metà articolo, come si faceva alle medie. Da metà in poi parlo del disco tentando di informare senza annoiare. Perchè si deve pur parlare del disco, mica è un sito di poesie ...

gull (ha votato 7 questo disco) alle 13:13 del 12 agosto 2010 ha scritto:

Intenso, intimo, sofferto. Il trittico iniziale è stupendo, e la coda finale di "Half moon bay" una delle cose più belle che ho ascoltato recentemente. Certo, un intero disco solo voce e chitarra è rischioso, ma qui i momenti "minori" (a rischio noia), sono davvero pochi, e l'autore ci regala un disco riuscito ed ispirato.

paolo gazzola (ha votato 8 questo disco) alle 12:01 del 19 agosto 2010 ha scritto:

Sì, ancora un gran disco. Servono un po' di pazienti ascolti prima di coglierne tutta la reale bellezza: scappano le tante modulazioni di voce (in Third and Seneca, per dirne una), scappano i testi (indispensabili), scappa la chitarra, che questa volta ha un ruolo davvero fondamentale. Bello il riferimento al fingerpicking circolare e ipnotico di Fahey. A me ha ricordato a tratti anche Roy Harper, ma in realtà c'è davvero di tutto, compresa un'insospettabile ispirazione latina. Per la voce mancano gli aggettivi.

Roberto (ha votato 8 questo disco) alle 20:07 del 19 agosto 2010 ha scritto:

Da "fan" . . . ehm mi correggo . . . da "ammiratore" dei Red House Painters ( e di Barzin) non ho fatto altro che ascoltare questo disco con un' attenzione direi particolare. E la musica mi ha ripagato ampiamente. Kozelek, ammesso che a lui possa interessare, non delude mai.

In quanto alla recensione, un passaggio lo sottoscrivo totalmente : " . . .anche gli intellettuali ultras dei Pink Floyd non sono da meno (quelli che qualunque nota arrivi alle loro felpate orecchie commentano piccati: "questo lo facevano già i Pink Floyd venti anni fa) . . ."

Sono cresciuto con i Pink Floyd passando dall' amore all' odio in pochi anni. Nella mia personale classifica sulla facile irritabilità, il classico tipo/a snob che ti parla dei Pink Floyd come fossero l' alpha e l' omega della musica, detiene il primato!

Gar alle 12:39 del 21 agosto 2010 ha scritto:

che belli

ri-conosco adesso. molto belli.

ozzy(d) (ha votato 8 questo disco) alle 14:41 del 7 settembre 2010 ha scritto:

Piacevolmente prevedibile, scioglierebbe il cuore pure a Minzolingua

REBBY (ha votato 5 questo disco) alle 9:20 del 13 settembre 2010 ha scritto:

Nonostante tutto l'affetto e la riconoscenza che

anch'io provo per questo musicista e pur capendo,

ad esempio, che la title-track dia la paga a tutti

i novelli Dylan, rimasti a prima di Newport 65,

ascoltati di recente, questo album è per me, nel

complesso, musicalmente troppo monocorde.

Filippo Maradei (ha votato 8 questo disco) alle 11:48 del 17 ottobre 2010 ha scritto:

Una "Medicine Bottle" per giornate sbagliate: non la pioggia stavolta, il sereno... perché anche il sole, alle volte, può essere tremendamente noioso. La fre(sc/dd)ura e l'umidità degli ultimi giorni, in questo caso, aiutano e non poco; la nostra cameretta, le serrande abbassate, la voce e gli arpeggi di Kozelek fanno il resto. Bella la recensione, sentita e non m(i)elodrammatica.

Alessandro Pascale (ha votato 8 questo disco) alle 18:51 del 30 dicembre 2010 ha scritto:

incantevole

potessi tornare indietro lo metterei in top 10!