R Recensione

8/10

Sun Kil Moon

April

La musica di Mark Kozelek è un languido, interminabile ultimo giro di danze nel salone in penombra di una nave che affonda nel mare dei ricordi. Acqua che scivola nell’acqua senza lasciare traccia. Riecheggia carezzevole sulle coppie che ballano, vestite con eleganza, sul loro ondeggiare e sobbalzare alimentato direttamente da una discinta collana di note pulsanti che assorbono come ammortizzatori. E poi la sua voce che indugia nell’atmosfera fumosa e si avvolge come una fune di salvataggio attorno alle sagome che si abbracciano silenziosamente. Nostalgica, eppure senza tempo perché al di fuori degli argini stessi del continuum spazio-temporale.

Come gli ospiti dell’ “Overlook Hotel”: figure in un libro della memoria che si accavallano alla luce crepuscolare dell’eternità. Mark Kozelek osserva il mondo ad socchiusi, come se il creato fosse uno spettacolo troppo intenso per il suo sguardo. L’eterea lontananza dei Red House Painters e il rammarico per quel prematuro cupio dissolvi viene, ad un tempo, colmata ed acuita da April, il nuovo Sun Kil Moon. Non che con questa reincarnazione dei suoi “Pittori della casa Rossa” (Koutsos e Mooney dei Red House Painters alla batteria e Stanfield ex American Music Club al basso) Mark sia definitivamente riuscito a superare se stesso, d’altronde quando hai già messo a spartito due sciocchezzuole come Down Colurful Hills e Rollecoasters i rischi, al pari delle aspettative, sono maledettamente alti, ma la sua vena poetica fluisce a tutt’oggi gonfia ed impetuosa come un ghiacciaio che ingrossa un torrente primaverile. Manco fosse un equilibrista, da sempre in punta di piedi sull’orlo del suicidio, Mark sa bene come farsi perdonare il torto di essere sopravvissuto a se stesso (e al malefico triennio’66-’69, a scalare di un anno: Jeff Buckley, Kurt Cobain, lui ed Elliot Smith). Il suo stile nel tempo s’è fatto più prosaico e meno trascendentale, è diventato più musicale e meno confessionale, più John Denver e meno Nick Drake, più commosso e meno atarassico, ma poco importa se, come in questo caso, la sua ispirazione si conferma adamantina.

Lost Verses, semiacustica e meditabonda, rumina le sue pennate per dieci minuti buoni, come teneri petali di rimpianti strizzati nel turbinio della vita, come una foglia secca schiacciata in un cassetto e poi dimenticata, elevando gradualmente la pastorale country ad orazione lirica, quasi temesse che quei versi potessero davvero sfuggirgli, abbandonarlo per sempre come piume in balia del vento. The Light è un degno omaggio all’arte chitarristica di Neil Young, serpentine elettriche e gracchianti, accordi insistiti e sfibranti e persino qualche mini assolo al ralenti, a cui i cori di Will Oldham e Ben Gibbard aggiungono una straniante tonalità da omelia. Lucky Man è un arpeggio celtico che s’avvolge su stesso come una treccia di spaghi dorati, come un sogno a cui aggrapparsi, quasi fosse una coperta immaginaria da tirare sul mento in un gelido mattino, quando è già passata l’ora di alzarsi. Unit Hallway è una ninna nanna honky tonk cullata dal fruscio delle spazzole e dalle spigolature sottocutanee del banjo.

In Heron Blue rispolvera la sua intonazione più virile per una “ghost dance” ipnotica e sognante dove le trame delle chitarre si rincorrono e si annodano in digressioni “spiritiche” degne di John Fahey. Moorestown, morbida come l’ala d’un cigno, è una torch song domestica, religiosa ed aurorale, intessuta alla sua maniera filando un sottotesto di dettagli rivelatori e frasi mai pronunciate. La splendida cantilena di Harper Road, col suo falsetto accorato ed ululante, testimonia che, forse, Kozelek ha la lacrima facile più facile che in passato.

Ancor più sotto l’egida di Young (con un guitar drone in vibrato di quasi un minuto) è, invece, Tonight the Sky, epica come una carovana di sogni ad occhi aperti che attraversa lo Stige della quotidianità per poi sfociare in un ritornello torpido e melodico. Like a River è un tex-mex scandito dagli zoccoli di una cavalcatura al passo. Tonight in Bilbao (con i quarti di “charlie” e ride che sembrano indurre ad uno stato di trance, i cambi jazzistici e le screziature droniche in penombra) e Blue Orchids (con le sue insospettabili fughe di flamenco) sono i brani che richiamano più da vicini i primi Red House Painters, anche se ora gli arrangiamenti, scarni ed allampanati, imbrigliano perfettamente la narrazione anziché lasciarsi trasportare da essa.

Questa è l’umile maestosità del più grande cantastorie degli anni ’90: a dischi così non dobbiamo mai abituarci e in nome loro vale la pena attendere cinque anni. O anche di più.

V Voti

Voto degli utenti: 7,6/10 in media su 13 voti.
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REBBY 7/10
Cas 7/10
B-B-B 8,5/10
Lelling 8,5/10

C Commenti

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REBBY (ha votato 7 questo disco) alle 9:01 del 6 maggio 2008 ha scritto:

Io la penso come Simone sui Red House Painters.

Per quanto riguarda l'album dei Sun Kil Moon si

ascolta volentieri, ma quest'anno il derby con

American Music Club l'ha perso! (Simone so che

non sei d'accordo).

simone coacci, autore, alle 17:00 del 6 maggio 2008 ha scritto:

Eh no, non del tutto Reb, . Anche se 'sti due sono "arcani incantatori" e i loro dischi hanno il potere di ammaliarti all'ascolto sulla lunga distanza. Inzialmente il lavoro Eitzel m'aveva scazzato parecchio, poi è cresciuto fino a un 6,8/6,9, ora continua a levitare e non escludo che per fine anno possa sorpassare il 7,5. Ad ogni modo questo Mark è ancora avanti d'un incollatura, per adesso. Comunque, si, entrambi i Mark si sono un po' ridimensionati rispetto a "Down Colourful Hill" o "Rollercoaster" ed "Engine" o "California", ma nel panorama odierno fanno ancora la loro porca figura.

fabfabfab (ha votato 8 questo disco) alle 16:08 del 7 giugno 2008 ha scritto:

RECENSORI

Al di la del disco, che solo per la voce merita il massimo dei voti, vorrei soffermarmi sulla recensione. Lontano dai miei pensieri il voler insegnare qualcosa a qualcuno, ma l'idea che mi sono fatto è che talvolta il recensore parli di se stesso e non della musica. Intendo dire che su 100 frasi, cinquanta sono metafore. Belle, poetiche ed eleganti, come in questa recensione. Ma altrettanto inutili se parliamo di musica. In questo l'"atarassico" Mark kozelek ci insegna una cosa: per descrivere non c'è bisogno di un linguaggio aulico o di figure retorico-letterarie, soprattutto se l'ispirazione è "adamantina".

Bello il disco, e ottima la recensione, nella sua componente musicale.

fabfabfab (ha votato 8 questo disco) alle 16:17 del 7 giugno 2008 ha scritto:

will oldham

Ah, caro Gulliver: Will Oldham si mangia a tutti a colazione. Sono d'accordo. Will Oldham ormai è dentro l'Ultima Cena di Leonardo della musica. Alla destra di Dylan, accanto a Cohen, Drake, Bill Callahan e pochi altri graditi ospiti.

simone coacci, autore, alle 16:33 del 7 giugno 2008 ha scritto:

Per carità, simpatico amico, io cerco di imparare ogni giorno qualcosa (un giorno passato senza imparare nulla, non vale la pena di essere vissuto, credo...) e penso che chiunque, sotto un certo punto di vista, possa avere qualcosa da insegnarmi. Quindi, ti ringrazio. Se le critiche sono esposte in maniera garbata ed intelligente, le apprezzo e molto.

Solo, volevo sottolineare che per me la musica, una volta fuoriuscita dai solchi, appartiene tanto all'autore quanto al fruitore, diventa parte del suo vissuto, del suo modo di percepire le cose del mondo (è un problema annoso dell'ermeneutica e della critica letteraria e non, fin da Roland Barthes e anche prima). Quello che cerco di fare, in sostanza, è legare l'espressione, le sensazioni che un disco induce o fa rivivere, alla sua matrice tecnica e stilistica. Probabilmente non ne sono all'altezza, talvolta ci riesco, più spesso annoio, ma, credimi, la mia più intima preoccupazione è cercare di rendere giustizia all'opera e di permettere a chi legge di entrare agevolmente in contatto con la sua natura più profonda, non quella di farmi fare o ricevere complimenti. Io sono solo un medium umile e inadeguato .

E comunque grazie ancora. è stato un piacere.

fabfabfab (ha votato 8 questo disco) alle 16:47 del 7 giugno 2008 ha scritto:

Anch'io ringrazio te. Volevo arrivare proprio li, a Barthes, al "Grado zero della scrittura", al modo parlato. Parlare di musica. Come stiamo facendo. Ciao.