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7/10

The Digger's Lane

The Digger's Lane

Dietro il nome The Digger’s Lane c’è la storia della vita di un musicista, originale e intimista: Matteo Gianola, giovane talento della scena rock di Lecco, sceglie il rifugio dopo un viaggio in India su una sorta di eremo tra le alpi al confine con la Svizzera, a 1800 metri di altezza. Ma qui ritrova se stesso: ricomincia dalla musica e dalla poesia col gruppo rock’n’roll Rumble Tumble e da lì si ritrova come uomo, mettendo su la propria famiglia. Tastierista, armonicista, chitarrista acustico e elettrico, cantante, Gianola sfoga in questo progetto solista tutta la sua intimità, come cercasse di gridare qualcosa al mondo che guarda protetto dall’alto del suo rifugio, teso quasi ad uscirne. E il primo pensiero che tocca appena conosciuta la sua storia, va così ad un teatro glaciale, fatto di neve, gelo e introspezione, un pensiero sostenuto anche dalla cover dell’album, dai colori freddi e apparentemente immobili che la disegnano, ma anche dagli stessi titoli dei brani che ne fanno parte. Eppure, una volta inserito il disco nello stereo, ogni aspettativa precostituita crolla: la prima impressione all’impatto con la musica è il tentativo che Gianola fa di sciogliere, con il calore del suo corpo, il ghiaccio che lo circonda, sfregando la chitarra acustica fino a renderla bollente e scaldando la voce fino ad emettere un suono rauco, espulso con passione dal petto.

Così il primo brano, “Rain is calling my name”, sembra avere un accento in più di un semplice folk acustico, trascinando a tratti in un’atmosfera raffinatamente pop, con la voce che raschia la gola riuscendo a dare il peso greve di un’emozione. “Glass rain” cede alla ballata folk, agitandosi in un’atmosfera viva, calda di un’intimità in cui Gianola cerca di far entrare l’ascoltatore aprendogli la strada con un’organo e una pesante chitarra che accentua in pochi arpeggi quella acustica di fondo: l’ascoltatore diventa così complice di segreti notturni, provando una sensazione onirica già vissuta in un album come “Scraps at midnight” di Mark Lanegan. Il brano che segue, “Invisible man”, è forse il più forte, quello che riesce a dare all’album la vera impronta di un artista al limite tra il grido e il silenzio. La solita chitarra acustica intreccia i suoi accordi con le note di un mandolino, creando un effetto straordinario al limite dell’armonia dove lo stridore delle corde sembra quasi un urlo continuo e sensuale. È splendida l’intensità con la quale cresce, raggiungendo il ritornello in uno stato di passione assoluta in cui è la voce, ruvida, rovinata dall’emozione, che arriva a sfiorare il grido, sempre di più, strofa dopo strofa, come fosse un pezzo registrato live, senza la sicurezza di una distanza tra musicista e spettatore.

Ed è questa vicinanza che coinvolge, che permette all’ascoltatore di sentire sulla sua stessa pelle la gola grattata dal sentimento che si fa sempre più impossibile da placare. “Chill of the wind” è una densa ballata folk, una ninnananna in stile celtico dove il terrore del vento che il titolo suggerisce è piuttosto un modo per superarlo, nella sicurezza del proprio rifugio all’interno del quale suona una chitarra classica ad accompagnare la voce e solo fuori dalle finestre il vento soffia, si agita attraverso un violino, tanto lontano da non poter far paura. Le chitarre classiche ed acustiche si elettrificano, la voce sembra più leggera, spensierata: “Waiting out of prison” è quasi un rock’n’roll, ma i ritmi sono ancora bassi, ancora appesi a quell’atmosfera intimistica che ha caratterizzato i brani precedenti. Un violino folk accenna qualche passo di danza che gli ultimi clienti di un pub, stonati dall’alcol, seguono, mentre il proprietario sta per chiudere, per andare finalmente in vacanza: ci attende fuori da quella che a volte ha visto come una prigione, l’intimità dove il silenzio pesa come un macigno, ma dove basta una chitarra e pochi altri strumenti per farne poesia.

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