Zucchero
Fly
Ormai Zucchero è un'istituzione italiana. Uno che nell'ambiente dell'Italia pop si è mantenuto sempre (o quasi) autentico in una miscela di provincialismo e senso di colpa religioso, di artigianato musicale e di tradizione che tanto piacciono nel Bel Paese. Uno dei pochi italiani ad aver avuto successo in America, con l'album Zu & Co., 200.000 copie vendute e fama di "musicista internazionale". Uno che ha duettato con gente del calibro di Eric Clapton, Queen, Bryan Adams e Solomon Burke senza mai sfigurare. Uno che nelle sue canzoni ha sempre inserito qualche "inglesismo", nella giusta misura. Ebbene, se questo curriculum vi sembra buono, concordo con voi; il problema è che ha un peso, che si riversa sui dischi del caro Adelmo Fornaciari, spesso sommergendoli.
Fly, purtroppo, non fa eccezione. E' difficile in questo disco capire dove finiscano i meriti di Zucchero e dove iniziano quelli dei collaboratori. Tanto per rendere l'idea: c'è la solita overdose di grandi musicisti (Brain Auger, Michael Landau,Pino Palladino, Randy Jackson e chi più ne ha più ne metta), il superproduttore (Don Was) e le collaborazioni con Ivano Fossati (co-autore di E' delicato) e Jovanotti (co-autore di Troppa fedeltà). Inoltre impera su tutto un citazionismo abbondante: Un kilo riprende The seed dei Roots, su Cuba Libre echeggia Manu Chao e in Occhi fa addirittura capolino Walk on the wild side di Lou Reed. Citazionismo libero, innocente, certo, ma che a un certo punto diventa ingombrante.
L'anima di un disco è però la musica, non certo tutta la scorza che c'è intorno, e Fly va ascoltato di primo acchito, senza cercare per forza di trovare riprese esterne più o meno evidenti. Per il bluesman di Reggio Emilia questo è un disco marcatamente pop, costruito per la maggior parte sulle melodie ridondanti di tastiere celestiali, e in alcuni casi sui ritmi secchi del blues. Si nota, nel flusso di parole che Zucchero cuce sopra alla musica, una certa inconsapevolezza, come se non sapesse bene il significato di ciò che dice, ma i testi sono comunque ben fatti,creano un filo di seta che lega bene tutti i pezzi, se non fosse per due cadute dolorose: Cuba Libre e Pronto.
La prima è impostata su ritmi smaccatamente latini, e in linea con il titolo Zucchero inserisce anche frammenti spagnoleggianti. La struttura generale della canzone è abbastanza banale, ma ciò che la rende veramente imbarazzante è il testo, soprattutto nel ritornello: Mi piace la lasagna/ e poi mi piaci tu/ un pò di marijuana/ sotto il cielo blu, cose che cantate dal signor Sugar non sai se ti fanno ridere o ti mettono tristezza, e rimarcate dal ritmo della salsa di sottofondo fanno un effetto decisamente kitsch, come un carro di travestiti brasiliani alla fine del Carnevale di Rio. Pronto, introdotta ancora da alcune parole spagnole, si impernia invece sul ritmo funky delle percussioni che picchiano e le chitarre che parlano piano e rendono gradevole il pezzo, se non ci fosse però una bruttura ad appesantirlo senza rimedio: seconda strofa, "Adesso inizia il pianto/ che tanto non ti sento/ Cristo siamo nelle tue mani/ non battere le mani, per carità/ che c'ho paura degli Americani/ degli Inglesi e degli Italiani/dei musulmani/ e anche dei cristiani". Ora: tentativo di criticare tutti ma non offendere nessuno? Non molto riuscito, sorry. Poi vengono inserite ancora parti in inglese, spagnolo e la canzone finisce senza rimpianti.
Rimangono sulla striscia funk anche le due canzoni iniziali del disco; Bacco Perbacco, il singolone di lancio del disco, che non cambia affatto le abitudini dell'ascoltatore, con i soliti "yeah" e il testo tra Ave Maria e i campi con il vino. La musica però si fa preferire rispetto agli stessi tentativi presenti nel disco: una bella chitarra melodica in primo piano, percussioni trascinanti, e cori strepitosi di contorno. Se l'immagine che avete di Zucchero è proprio quella del cantante italo-funk, adorerete questa canzone. Un kilo non ha lo stesso valore, molto simile a Pronto nell'impostazione, però ha in più una certa aria decadente che contribuisce a fornirle un pò di fascino aggiuntivo. Una buona cartolina di Zucchero che si lascia andare sugli accordi elevati di chitarra.
Da qualche disco in qua, Zucchero inserisce nelle sue opere pezzi più prettamente ritmati e altri melodici e malinconici; le dosi dei due ingredienti variano a seconda del periodo e dell'umore, ma Fly, come già detto in apertura, registra un certa propensione per il secondo tipo di strada musicale. Perciò le canzoni finora citate rimangono quasi un'eccezione, la parte predominante del disco e di tutt'altra pasta. La si potrebbe descrivere come un'amalgama di organo e pianoforte, slanci epici, parole comprese nella sfera che passa dall'amore alla tristezza, riverberi e rallentamenti in corsa: il prodotto finale è talvolta troppo appiccicoso, talvolta troppo melenso, ma quando riesce bene è sempre buono da gustare.
Prendiamo E' delicato: echi d'organo e solo i tasti bianchi e neri di un pianoforte a sostenere la voce raschiante di Zucchero, poi l'inserimento preciso di chitarra melodica e percussione, pausa centrale dove ancora torna l'organo e un output che è un'incredibile salita verticale verso il cielo, spinto dai cori femminili e dalla batteria incalzante, e proprio quando con un dito si sta per sfiorare una nuovola bianca, ancora le note del pianoforte chiudono il percorso, lasciando dentro al sensazione delle onde che si infrangono dolci sulla spiaggia. Non mancano però nemmeno gli zuccherini troppo dolci, tanto da risultare indigesti: si chiamano Occhi e Troppa fedeltà, e le semplici strutture melodiche non bastano a sostenere l'indigestione di buoni sentimenti e occhi dolci. Ci sono anche alcune canzoni che evidenziano buoni spunti, appiattiti un pò dal meccanismo appena descritto e che quindi si collocano nel mezzo: L'amore è nell'aria ha un suono polveroso e una chitarra che affiora a tratti, distinta e triste; Quanti anni ho, che sembra il canto di un tenore in una chiesa.
La massa del disco è questa: non un granchè, molto mediocre. Ciò che fa raggiungere veramente la sufficienza sono due brani posti sul finire che alzano il tiro molto bene, e quasi fanno sospirare pensando alle altre canzoni come piccole opportunità che potevano essere usate meglio. Let it shine è una meraviglia, quasi una goccia di acqua purissima che bagna la sabbia di un deserto, e fa l'effetto di guardare una vecchia cartolina ingiallita riscoprendo che con il passare del tempo è diventata ancora più bella. Qui Zucchero fa VERO blues: le voci aggiunte sono un coro misto che sorge dal profondo, una famiglia di anime eteree, e una solista che ribatte colpo su colpo. Passa tutto: la chitarra che ora procede lentamente deviando il suono, ora sovrasta il castello della melodia con un suono compatto; la batteria dietro a tutto, che tinge di nebbia la base; la grande voce di Zucchero fusa al controcanto e un testo luccicante; una salita non troppo ripida che porta ad un'altra discesa che termina d'improvviso. Questo è il bluesman puro, quello che Zucchero si è sempre detto essere ma che non sempre ha saputo dimostrare. Ma in questo caso il titolo combacia bene. Alla conclusione c'è l'altra perla bianca, E di grazia plena, canzone "piano & strings": Zucchero da solo davanti a un pianoforte evocativo, davanti a una schiera di archi flessuosi e una batteria discreta che tiene a braccetto i tasti bianchi e neri nella preghiera, in un "reddere gratiam" su chiariscuri fortissimi e che termina con il raggio di sole che tutti, a volte, vedono nella felicità.
Che dire di più?Le qualità dell'alunno sono buone e ampiamente riconosciute, ma il più delle volte non si impegna. Eppure gli ultimi due gioielli lasciano ben sperare sul fatto che Zucchero non abbia perso il suo stile allo stesso tempo ruvido e dolce e che possa fare un bel repulisti si tutti gli orpelli in eccesso, lasciando sul piatto la cosa che nella musica è sempre al chiusura del cerchio: l'anima.
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