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R Recensione

7,5/10

Donovan

Fairytale

Lungi dall’essere un cantautore cervellotico, Donovan. Eppure la critica, spesso e ancora oggi, si ritrova incerta quando si tratta di delineare, con sufficiente precisione, lo spessore della sua opera. Tanto che viene ora viene presentato solo come una delle diverse “curiosità” della stagione hippie, ora come uno degli Artisti imprescindibili dei sixties, anticipatore della psichedelia e del progressive rock (!) inglesi.

Donovan è a tutti gli effetti un umile, e mediocre, folk-singer quando inizia la carriera: un singolo (“Catch the Wind”) che poco ha da raccontare al mondo del marzo ’65 – troppo assonante a “Blowin’ in the Wind”, e come cantautore di protesta non poteva essere credibile in confronto a un Bob Dylan – e un album tradizionale (superfluo, dunque), “What’s Bin Dib”. Nel frattempo Dylan registra e pubblica il mitico “Highway 61 Revisited”, facendo sembrare terribilmente vecchio moltissimo folk e moltissimo cantautorato: è la prima grande pietra miliare del rock. Eppure Donovan, in quel turbolento ’65, mette in fretta ordine nelle sue idee, e in ottobre fa qualcosa di importante anche lui: pubblica “Fairytale”.

Parlare di folk tradizionale riferendosi a “Fairytale” è impreciso, fuorviante. Per quel genere ci sono i vari “Farewell, Angelina” e compagnia, album magari piacevoli ma lungi dall’essere innovativi – e il fatto che album come “Farewell, Angelina” siano considerati capolavori da una parte della critica ben dà la misura di quanto poco sia d’interesse l’innovazione per certi critici (eppure è proprio con quella che la Musica sopravvive). “Fairytale” è anzitutto una delle grandi pietre miliari del cantautorato sessantiano. Donovan vi si dimostra raffinato artigiano del folk, ispirato, seppur sempre con ammirevole umiltà, arrangiatore, efficace ed efficiente cantastorie. L’ingombrante spettro di Dylan se n’è andato del tutto: questo qui è Donovan al 100%, un tenero ragazzo ormai adulto, che però, similmente ad un fanciullino, si stupisce della Natura e delle piccole cose che i grandi (come Dylan) facilmente ignorano.

Tutto ciò lui lo racconta in maniera esemplare nella serafica “Colours”, serenata per puri di cuore dedicata all’amata e alla natura, i suoi due grandi amori. I versi e la musica sono semplici, ma quanto mai efficaci. Il grande “ingrediente segreto” di questo Donovan è proprio di riuscire a rendere magico quello che in bocca di altri cantautori apparirebbe banale. Questo in realtà accade anche grazie al suo particolare genio melodico: ben lo dimostra la gioiosa filastrocca di “Candy Man”, che si rivela inaspettatamente un acuto incastro melodico, e “Sunny Goodge Street”, che prova le sue abilità di arrangiamento. L’estasi viene sfiorata in “To Try for the Sun”, grazie ad un’armonica trascendentale che si alterna perfettamente al suo canto trasognato – e anche qui si capisce come Dylan c’entri ben poco. Due piacevoli cover, “Oh Deed I Do” e “Circus of Sour” compongono un gioioso intermezzo. Donovan è però anche un chitarrista acustico degno di nota, e questo ben lo dimostra con altre due brevi canzoni: la surreale parabola di “The Summer Day Reflection Song” il clima meditabondo viene marcato da discrete frasi di acustica, alla fine di ogni strofa; mentre in “Jersey Thursday” emerge un animo nervoso, con un lavoro chitarristico complesso e misterioso.

Non c’è dubbio che “Fairytale” non sia degno dei sommi vertici del cantautorato della decade, ovvero “Highway 61” e “Blonde” di Dylan e “Songs of” di Cohen; però, altrettanto probabilmente, artisti come Eric Andersen, Cat Stevens, Nick Drake, ma (perché no?) anche lo stesso Cohen discendono più dalle semplicità intelligenti di quest’album che dalle parabole epiche di Dylan. Ed ecco che è subito giustificato lo status di pietra miliare di cui esso avrebbe diritto a godere. L’album termina con quattro canzoni, nelle quali, seppur da un lato lascino emergere il suo lato tradizionalista, Donovan riesce a iniettare una sensibilità unica: ancora, l’”ingrediente segreto”, la magia che distingue un grande cantautore, anche solo momentaneamente, da chi non lo è. “Belated Forgiveness Plea” e “Ballad of Crystal Man”  sono momenti di grande intelligenza malinconica, pagine opache ma ancora perfettamente leggibili, accorte sculture folk simili a tante ma con quel che “in più” che le rendono indimenticabili. La commovente parabola del “Little Tin Soldier” (di Shawn Philips) è uno dei sui vertici emotivi, dove il suo canto si fa più appassionato seppur sfuggendo ogni mera retorica. Quella di “Ballad of Geraldine”, diapositiva di una ragazza madre confusa, preoccupata, e perdutamente innamorata, tocca il cuore di tutti; ancora una prova di intelligenza, di sobrietà, di tatto, di genuinità.

Lo affermo senza timor di smentita: è questo l’album capolavoro di Donovan.

Non “Sunshine Superman”, pur forte di arrangiamenti originali ma che nei fatti non riesce a confezionare una canzone memorabile che sia una, e certamente non “A Gift From a Flower to a Garden”, che è troppo ingenuo in troppi punti. Qui si trova il punto d’incontro fra la tenerezza e la maturità, un punto che a suo modo, silenziosamente, in punta di piedi, farà epoca.

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