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R Recensione

7,5/10

John Murry

The Graceless Age

Noto (poco) per l’ottimo album di murder ballads World Without End (Decor, 2007), scritto a quattro mani con il “vecchio” Bob Frank, John Murry, trentatreenne di Memphis trapiantato in California, con questo The Graceless Age giunge finalmente al suo personale, insperato debutto. Dire “finalmente” e “insperato” è quanto mai consono. Non tanto per l’età del nostro, non più esattamente da debuttante, quanto per la lunga e oltremodo incerta gestazione del lavoro (quattro anni circa). Vale la pena, per spiegare un tale travaglio, inquadrare un minimo il personaggio. John Murry - a leggere in giro - è persona oltremodo insicura di sé e delle proprie capacità. Forse per questo è anche un maniaco perfezionista.

Dice di sentirsi un ladro, colpevole di vivere una vita che altri meriterebbero più di lui.

 

Non crede nella felicità (“mostrami una persona felice e ti mostrerò un imbecille”) ed è - ovvio - regolarmente preda di malinconie e depressioni varie. Non nasconde di avere seri problemi di dipendenza dall’eroina. Al punto che ci è pure morto, una volta, di overdose. Una morte di qualche minuto, a cui l’hanno strappato, in ambulanza, due bombe di Narcon e una di adrenalina. C’è quasi tutto nell’amara giustezza con cui l’amico musicista Chuck Prophet afferma: “John ha fatto un disco. La cosa sorprendente è che l’abbia fatto nonostante sé stesso”.

 

Non vorrei, ora, anche se non sarebbe certo fuorviante, partire col solito pistolotto sull’artista che si mette a nudo, sublimando la bellezza della cruda verità e bla bla bla (che poi, qui come altrove, la bellezza non sarebbe quella della verità in sé, ma quella del coraggio di raccontarla). The Graceless Age, semplicemente, non merita lo svilimento di essere buttato in nessun calderone, per quanto nobile esso possa essere. Ché pur rimanendo un disco di cantautorato folk, con canzoni splendide e splendidamente intrise di tradizione americana, il lavoro colpisce innanzi tutto per la sensualità del suono, la ricchezza degli strumenti impiegati e l’eleganza degli arrangiamenti.

 

Un po’ come potrebbe accadere ascoltando i Sun Kil Moon, non fosse che lo stile vocale di Murry e la mole di distorsione utilizzata evocano in primo luogo Mark Eitzel e i suoi American Music Club (non a caso c’é Tim Mooney - R.I.P. - alle pelli, un passato in entrambe le band). C’è poi un lavoro impressionante in particolare sulle chitarre (California, il finale di Things We Lost In The Fire che sfiora i Built To Spill) e sui loro effetti, ma anche sul missaggio tutto (Photograph) e sui dettagli che esso ora nasconde, ora evidenzia. Perché The Graceless Age è, a tratti, un disco profondamente stratificato, dove gli strumenti sono senz’altro i protagonisti ma non gli unici attori. Con loro, tra le spire di questa musica, ci sono rumori e minimi inserti elettronici, letture di scritti (The Loser di Thomas Bernhard in Penny Nails) e registrazioni del reale (Faulkner che accetta il Nobel in The Ballad Of The Pajama Kid). Elementi utilizzati anche per quei brevi interludi che immancabilmente legano ogni brano al successivo, invitando signorilmente ad un ascolto ordinato ed integrale.

 

Poi, o prima di tutto, ci sono le canzoni. E sarà anche insicuro, Mr. Murry, ma se piazza in apertura quei tre accordi lì - sol, re, la minore - con quella cadenza lì, ovvero quasi esattamente Knockin’ On Heaven’s Door, una certa dose di fegato secondo me ce l’ha. Così come ha - e questo è evidente - talento sufficiente per trasformare un monumento popolare in altro di altrettanto notevole. È una scrittura raffinata ma semplice la sua, che predilige linee brevi e incisive spesso appoggiate, nelle strofe, su due soli accordi. E se da quest’alternanza si esce, si preferisce farlo restando comunque in tonalità.

 

Che si parli dei dieci minuti di piano, archi e voce di Little Colored Balloons (le bustine colorate in cui si vende l’eroina) piuttosto che dell’immediatezza irresistibile di un brano perfetto come Southern Sky, strumentalmente ricchissimo, il risultato è sempre una musica decisamente priva di asperità, seducente, oppiacea ma per qualche motivo - o forse proprio per questo - rassicurante. Tra il pneumo-basso di California, il bipolarismo di Things We Lost In The Fire, l’essenzialità di If I’m To Blame,  i cedimenti al gospel di Penny Nails e la cover di Thorn Tree In The Garden (Bobby Whitlock), risolta in ninna nanna dal pianoforte, il disco si chiude senza avere un cedimento. Anche se, devo dire, nonostante l’impegno, quell’assolo un po’ così, risolto un po’ così, sul finire di ¿No Te Da Ganas De Reir, Sénor Malverde? io mica l’ho capito. Dettagli. Resta un gran disco. Anzi, tra eleganza e stile, misura e ricercatezza, resta il prototipo di quel che si dice - troppo spesso, ora lo so - un “Signor Disco”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

V Voti

Voto degli utenti: 6,5/10 in media su 1 voto.
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REBBY 6,5/10

C Commenti

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hiperwlt alle 11:24 del 23 novembre 2012 ha scritto:

appaga, sempre, leggere questi tuoi ritratti degli artisti, Paolo. in attesa di ascoltarlo per intero, mi godo i pezzi postati ("california", splendida).