The Microphones
Mount Eerie
Phil Elverum, nonostante i suoi maglioni improbabili, è un personaggio, e già questo gli regala qualche punto in un'epoca di nullità "pop".
Solo che è difficile entrare in contatto con il suo mondo, settato evidentemente su coordinate spazio-temporali e sensoriali diverse dalle nostre: credo che Phil percepisca gli ultrasuoni o che veda cose a noi ignote, perché diversamente non si spiega la musica che il suo cervello partorisce con facilità disarmante da un decennio e passa.
"The Glow Pt. 2" è la summa della sua arte, ma "Mount Eerie", dedicato al colle che domina le sue terre d'origine, è altrettanto bello. Più difficile e vasto, ma altrettanto poetico, altrettanto efficace in termini di resa comunicativa.
La cifra stilistica sposta la linea dell'orizzonte, rispetto al capolavoro pubblicato nel 2001 (per molti IL disco del decennio: per me si contende il titolo, a scanso di equivoci), perché l'impasto assume sfumature avanguardistiche più marcate.
Il lavoro è calato dentro una dimensione allucinata, che si evince anche dai titoli e dall'argomento portante: la terra. Ma forse più che altro lo spazio, l'universo nella sua inafferrabile vastità. Noi terrestri siamo piccoli davanti a tutte quelle stelle, no? E Phil rende proprio questa sensazione, ti senti parte del tutto, ma una parte tanto minuscola da provare una fottuta paura.
La sua è una fiamma fredda che ti tocca, che apre una ferita nel cuore, anche se la commozione è più trovata che cercata, dato che Phil è tutto intento a sezionare l'universo e a percorrere la Via Lattea. L'autore possiede l'estro del folletto magico Syd Barrett, ma la sua bizzarria sonora lo avvicina secondo me più al menestrello dell'eternità Tim Buckley. I percorsi interiori, poi, sono intricati e inquieti come quelli di "Rock Bottom", o se vogliamo di "Astral Weeks".
Il tutto viene catapultato in una dimensione nuova e sperimentale, in ogni caso. "Mount Eerie" suona come un matrimonio fra un Tim Buckley privato di ogni abilità tecnica (ad essere simile non è tanto il timbro vocale, ma la sostanza: entrambi sono navigatori delle stelle), i primi Pink Floyd e la bassa fedeltà rumorosa degli anni '90. Aggiunge quindi all'impasto una dimensione corale e futurista da sinfonia "deviata" che lascia esterefatti. Nonostante i lavori successivi, targati spesso proprio "Mount Eerie", siano interessanti, i vertici del disco pubblicato nel 2003 sono destinati a restare ineguagliati.
"Solar System", il secondo pezzo (il primo è più complesso e lo lascio un attimo da parte) è affascinante come una nuotata dentro acque gelide, alle prime luci dell'alba: quattro accordi di chitarra, un rumore sinistro di sottofondo, una melodia cristallina, un ritmo semplicissimo. La voce che bisbiglia composta e timida, un vento pungente di follia bislacca che ti rapisce. Il testo è un'ode alla solitudine, o forse alla speranza: "So che siete lì fuori". Un paesaggio desolato rinasce grazie a un'incontro alieno, vero o immaginario che sia.
"The Sun" è il lunghissimo, soave proemio: si apre come una sorta di sinfonia floydiana ammalata, subentrano quindi lenti rintocchi di chitarra che esplorano galassie sconosciute, sommersi da rumori glitch. Le percussioni da lunari lentamente diventano abrasive, forgiano bordate di rumore. Pare di vedere un alveare che zampilla, questa è un'Odissea nello Spazio, solo meno cervelottica e più "ammirata" di quella kubricikana. Il finale ti rivolta come un calzino: Elverum stende un folk-blues scarno, alterato da cori a cappella sinistri. L'insieme sembra para-reazionario al cospetto delle impressionanti sonorità della prima parte, e invece è altrettanto ambizioso e proiettato nel futuro (la coralità si erge su strutture quasi classicheggianti).
Le due "Universe", sussurrate dentro una sfera di vetro lanciata nel vuoto, accompagnate dalle sonorità gelide dei fiati e da voci inquietanti, sono la Nona Sinfonia in low-fi del decennio zero, una sinfonia umile ma dilatata all'inverosimile, uno dei momenti più toccanti e insieme ambiziosi della musica contemporanea. "Mt Eerie" trasuda sgomento, disegna il profilo della maestosa montagna e dei suoi mille ricordi. Racconta le vite che ha assorbito, che ha visto nascere, fiorire e spegnersi. A un certo punto accelera il ritmo e tratteggia una sorta di hip-hop (?!) per UFO che sorvolano l'oceano. Nel finale un folk scarnificato e dolce riporta un po' di pace.
Le foreste vergini del North West devono possedere una forma di energia sinistra e avvolgente, o forse è proprio Phil che viaggia solitario dentro un'astronave, o sopra una barca alla deriva.
Lo adoriamo per questo, no?
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