Antony and the Johnsons
The Crying Light
Non ho fatto il conto preciso, ma nell’arco di una settimana saranno state circa venti. Venti ore di buio mentale. Mai successo in vita mia. Perso, sospeso nel vuoto, la bocca semichiusa, la tastiera impolverata sotto le mani, il monitor che rifletteva luce bianca negli occhi e la voce di un angelo nella testa. Alcune volte riuscivo anche a scrivere qualcosa, del tipo “Il nuovo disco di Antony è …”, poi niente. Giorni interi con questa paralisi. Un dramma.
Allora oggi ho preso una decisione. Scriverò del nuovo disco di Antony senza ascoltarlo. Anzi, adesso accendo la radio, il modo migliore per concentrarsi su altro.
La storia di Antony ormai la conoscono anche i lettori di Donna Moderna. Scoperto da David Tibet, patrocinato da Lou Reed, balzato agli onori delle cronache indie con lo splendido “I am a bird now” (2005) ed infine trasformatosi nel “vibrato baritonale” che tutti vogliono, dagli Hercules & Love Affair a Franco Battiato.
Il nuovo album, “The crying light”, prosegue sulla direttrice tracciata dall’ep pubblicato l’anno scorso (“Another World”), ovvero imponendo due modifiche sostanziali. La prima è l’abbandono delle tematiche personali per abbracciare riflessioni sul mondo, sulla natura e sulla vita. Contestualmente, si assiste all’abbattimento di ogni modello di riferimento rilevabile nelle opere precedenti ed alla totale assenza di qualunque schema riconducibile alla musica rock o pop. La forma cantautoriale di Antony & the Johnsons plasma forme antiche ma vive di stimoli interni, in un continuo gioco di luci e ombre, di bianco silenzio e imploso fragore, di classicità vittoriana turbata da lievi impulsi immateriali.
È sufficiente la sezione centrale dell’album a spazzare via gran parte della concorrenza, ammesso che ne esista una. “Epilepsy is Dancing” si nutre di un piccolo tema di pianoforte per un minuto e mezzo, poi, avvolta da un lenzuolo di fiati, la voce si sdoppia e fa vibrare le ossa alla base del cranio. “One Dove” è ancora più scarna, pianoforte disteso su morbidi cuscini “jazzy” e una voce talmente nuda da metter in imbarazzo chi la ascolta. La sensazione, credetemi, è quella di violare qualcosa di troppo intimo, di essere entrati per errore proprio nella stanza che ci era stata vietata. “Kiss my name” è un rapido giro di danza, la melodia elegante ed ariosa questa volta è sorretta da una timida sezione ritmica e da un ricco e luminoso arrangiamento d’archi. La title track, un madrigale raccolto e corale al tempo stesso, chiude un quartetto da far tremare i polsi.
C’è ancora spazio per misurarsi con le potenzialità del gospel (“Daylight & the Sun”), del blues (“Aeon”, chitarra elettrica e voce) e con gli avanguardismi vocali di “Dust & Water”. Ottimi spunti che lasciano presagire nuovi margini di crescita (ancora?) di un artista che, semplicemente assecondando le tonalità della sua voce, sembra già perfetto.
Adesso scusate, ma devo andare a spegnere la radio. Prima però, accettate un consiglio: fatelo vostro oggi, questo Antony & The Johnsons 2009. Domani potreste ritrovarvi a cercarlo nello scaffale dei classici, tra un Tim Buckley 1970 e uno Scott Walker 1969.
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