R Recensione

9/10

Essie Jain

Theinbetween

Forse è improprio parlare di boom del songwriting folk femminile eppure è davvero difficile nascondere quello che a tutti gli effetti appare un elefante in un monolocale. Che se due o tre indizi fanno una prova qui il caso dovrebbe essere già risolto da un bel pezzo. Shannon Wright e PJ Harvey continuano a stupire sfornando alcuni degli album più belli della loro carriera. Cat Power si permette di rimanere su livelli eccellenti e può vantare una epigone esordiente (Dawn Landes) di alto spessore. Altre come Chris Bathgate e Keren Ann rimangono nella semi-oscurità a sfornare gioiellini di indubbio valore. E intanto in questa meravigliosa annata che è il 2008 escono fuori due capolavori come This coming gladness di Josephine Foster e questo Theinbetween, secondo disco dell’inglese (trapiantata newyorkese) Essie Jain.

E se l’esordio (We made this ourselves, 2007) era bastato a riscuotere un consenso pressochè generale dalla critica si può ora affermare senza troppe remore che per la cantautrice questa sia già la prova di una solida quanto incredibile maturità artistica. In una trentina di minuti vengono proposte dieci composizioni che arrivano a squarciare i cuori e sviscerare anche le anime più retrive ad assaporare il gusto del sentimento umano.

La formula con cui Essie Jain arriva a questo risultato resta sostanzialmente la stessa del disco d’esordio, un folk minimale tinto a larghi tratti di soul emozionale. Così fin da subito si rimane ammaliati dall’espressionismo vocale che guida l’essenziale tessitura musicale di Eavesdrop. E si capisce che ci si trova di fronte a una musica che trascende sé stessa e assume i caratteri di una lirica poetica incredibilmente evocativa.

D’altronde uno dei punti di forza che completano Theinbetween è la capacità di giostrarsi tra diversi registri. Ci si trova di fronte a ottimi esempi di folk-soul (Weight off me), talvolta affondati in una tradizione illustre (la You che spazia tra Nick Drake e Vashti Bunyan), ma lungi dal cadere in una manierismo antiquato la Jain riesce a equilibrare le istanze classiche con un citazionismo libero che rielabora influenze più recenti: Here we go sente l’influsso di Shannon Wright per il ritmo vibrato reso dalla leggera schizofrenia insita nella trama minimale del piano. The rights invece è una fulgida canzone da cantastorie teatrale discendente diretta della song-cabaret dei Dresden Dolls.

La capacità di alternare modelli vecchie e nuovi si fonde con un perfetto equilibrio compositivo che non fa mai scadere l’ascoltatore nello sbadiglio o nella nausea per un eccessiva sensazione di dolciastro e patetico. Così se I ask you è uno scarno duetto che riporta alla mente le collaborazioni Niblett-Prince Billy e Lanegan-Campbell con Do it si recupera un’energia dolente e rabbiosa, in un tono quasi nervoso che evoca la recente PJ Harvey.

I risultati più alti si raggiungono però quando la Jain lascia andare la propria anima soul liberando la propria splendida voce: è il caso dell’elegia conclusiva Goodbye in cui all’essenzialità dell’accompagnamento del pianoforte si unisce un canto sceso direttamente dal paradiso. È poi il caso del gioiellino Stop, in cui la capacità di variazione tonale si scioglie in quella che sembra diventare un’appassionante e pacifica preghiera.

E infine si arriva al grande capolavoro del disco: Please. Gli accordi di pianoforte sono stavolta più fluidi e sciolti in una semplice ma efficace melodia su cui si erge un canto dolce, caldo e potente allo stesso tempo. È una voce imponente quella della Jain, che giustifica paragoni illustri con chanteuse maledette come Nico e Patti Smith, fermo restando che là dove il campo sonoro era tendente alla sperimentazione e alla novità qui è al servizio di un formalismo poetico classico e ineccepibile.

La conclusione è che Please è un capolavoro senza tempo. E l’impressione è che anche Theinbetween sfiori la perfezione.

 

V Voti

Voto degli utenti: 6,1/10 in media su 8 voti.
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target 8/10
rubens 7/10
rael 6/10
krikka 5/10
REBBY 6/10

C Commenti

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fabfabfab alle 10:13 del 16 settembre 2008 ha scritto:

Eccolo qua. Alessandro Pascale che conferisce i giusti meriti a Keren Ann e, sopratutto, a Chris Bathgate. Bella recensione, ennesima citazione per Will Oldham (il cantautore più menzionato in Storiadellamusica?) e disco che vado a cercare immediatamente. Thank u, Ale.

target (ha votato 8 questo disco) alle 22:20 del 16 settembre 2008 ha scritto:

Esplosione del songwriting rosa, senz’altro. Ed è curioso come quasi tutti questi lavori siano accomunati dalla compresenza di momenti intimistici e sparate estrose, cabarettistiche, come dici tu (vedi anche la diamantina Shara Worden, che è certo più orchestrale, ma che qui si fa sentire in più di un punto, soprattutto per alcune sfumature teatrali dell’interpretazione vocale). Tant’è: codesta Essie mi garba assai, anche se le preferisco di un nulla le colleghe che puntano sulla chitarra piuttosto che sul piano. Disco breve breve (raggiunge la mezz’ora?), ma sufficiente per emozionare, anche se il debutto era forse più completo. Ah: volevo citare, così, en passant, un nome. Will Oldham.