John Grant
Queen of Denmark
La felicità è preda semplice.
Tranquilli, non mi lancerò in supponenti o pioneristiche discussioni su come cercarla: lascio volentieri la palla a Muccino. So per certo che ognuno di noi ha in mente una ben precisa idea di privatissima felicità; altrettanto probabilmente, siamo tutti in grado di coglierla nelle piccole cose. Nel mio caso basta una voce profonda, una buona amalgama chitarra-piano e qualche testo interessante. Non cerco la Luna, mi accontento di fuggevoli meteore.
E questo John Grant è davvero solo una meteora? Solo il tempo potrà dircelo. Certo è che l'americano (di Denver) aveva già dato prova di talento insieme ai Czars fin dal 1996; una band particolare, che era riuscita nell'assurda impresa di coniugare violenze shoegaze e ballate country-folk. L'esperienza, dunque, non gli manca; semmai un po' di successo e un vero riconoscimento da parte della critica; che poi, tra l'altro, come dice giustamente il nostro Biasio: "anche l'opera (musicale) più mediocre ha molta più anima del nostro giudizio che la definisce tale", per cui...
Comunque, il caro Grant ha deciso di riprovarci da solista. La sua creazione, "Queen of Denmark", è un trionfo di languido cantautorato: ora cesellato al riverbero folkeggiante ("TC and Honeybear"), ora costruito secondo accordi e melodie al fil di prog ("I Wanna Go to Marz"), ora isolato in una bellissima dimensione da lenta ballata classico-romantica ("Where Dreams Go to Die"); un trio iniziale notevole, dal caldo retrogusto erotico-vintage, e ispessito di una forte vena narrativa e testuale ("Baby, you are where dreams go to die / and I regret the day your lovely carcass caught my eyes / Baby, you are where dreams go to die / and I've got the get away I don't want to but I've to try, oh baby..."). Ma non è tutta acqua di rose quella che gorgoglia. Trovano spazio anche brani puntati verso un'ironia nera Alien(ante), è proprio il caso di dirlo ("And I feel just like Sigourney Weaver / when she had to kill those aliens..."), più leggeri negli arrangiamenti e vicini tanto a un pop disimpegnato ("Sigourney Weaver") quanto a un rag-time sincopato di piano e trombe ("Silver Platter Club").
L'ex leader dei Czars prosegue la sua piccola marcia autocommiserativa, perché questo è lo stato d'animo che traspare nell'intero album, seguendo tracce synth-seventies-pop, malinconicamente glo-fi nella bellissima digressione finale ("It's Easier") e suggestivamente Emerson Lake & Palmer nel proto-progressive di sottofondo ("Outer Space").
Camaleonte antropomorfo che non è altro, riesce a cambiare pelle in pochi istanti trasformandosi all'occorrenza in un eccezionale cantastorie socialmente (non) impegnato, trattando temi difficili come il disagio di un giovane omosessuale nel bigottismo straripante dell'oggi-bastardo con dissacrante e sarcastica pulsione interpretativa ("'cos Jesus / he hates faggots, son / we told you that when you were young" di "JC Hates Faggots"). Perso ancora una volta nell'unica "costante" che lega questi tutti i brani, gli anni Settanta, s'inginocchia alla corte di Re Elton John cullandoci in un dolce e melanconico piano-pop d'altri tempi ("Caramel").
Così sembra salutarci Grant, con una tenera ninna-nanna. Ma dobbiamo ricrederci: non la meritiamo. Noi piccoli creduloni. Noi filosofi. Noi intellettualoidi. Noi ancora persi in fantasmagoriche teorie esistenziali. Il vomito amaro rock di Grant ci saluta, altroché.
"Don't know what to want from this world / I really don't know what to want from this world / I don't know what it is you wouldn't want from me / You have no right to want anything from me at all / Why don't you take it out on somebody else? / Why don't you tell somebody else that they're selfish? / Weepy coward and pathetic..."
"So Jesus hasn't come in here to pick you up / You'll still be sitting here ten years from now / You're just a sucker but we'll see who gets the last laugh / Who knows, maybe you'll be the next queen of Denmark " ("Queen of Denmark")
Noi immaginarie regine di Danimarca...
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